Regia di Robert Sedlácek vedi scheda film
La 25° ora della new economy. Libor Pokorny è un manager di una società finanziaria della Repubblica Ceca, della quale, insieme a quattro complici, ha provocato la bancarotta mediante la ripetuta sottrazione di fondi. Ora che le sue responsabilità sono emerse, è stato licenziato in tronco e sul suo conto sono state avviate indagini. La sua posizione potrebbe alleggerirsi se decidesse di collaborare con le autorità. Invece di mettersi a disposizione degli inquirenti, l’uomo decide però di fuggire, insieme alla moglie Iva ed i figli Tina e Lukas, che sono del tutto ignari della situazione, e credono di partire per una vacanza fuori programma. Libor sa di essere braccato dalle forze dell’ordine, ma vuole rinviare il più possibile il momento nel quale dovrà separarsi dalla famiglia e dire ai suoi cari la dolorosa verità. Quel viaggio, esattamente come per il protagonista del film di Spike Lee, è un estremo scampolo strappato alla vita di sempre, a quella tranquilla normalità fatta di benessere che Libor aveva costruito anno dopo anno, col lavoro onesto e con operazioni illegali. Prolungare, per le persone amate, il tempo dell’illusione, è l’eroica missione di un codardo, che si è sporcato le mani, e una volta scoperto, vuole giustificare il suo agire con il pretesto della ricerca della felicità, che, in una realtà come la nostra, non si potrebbe sperare di raggiungere con altri mezzi. La sua generosa vigliaccheria è un’ombra che incombe sull’immagine di un Paese moderno, che è risorto due volte, riscattandosi dall’oppressione nazista e comunista, e, nella nuova Europa, aspira ad occupare un ruolo di primo piano. L’errore di Libor assomiglia ad un colpevole ritorno ad un passato assai poco glorioso, caratterizzato dalla corruzione dei potenti, che per molti decenni ha impedito ad una nazione di diventare grande. Il capitalismo, così come lo intende lui, dalla sua prospettiva di piccolo profittatore, fa pensare ad un sistema cresciuto su fondamenta marce, ancora profondamente intaccate dal germe della rivalsa personale. Libor ha creduto di poter approfittare della sua posizione per potere scavare una nicchia di privilegi per sé e per i suoi, pensando che il suo furto fosse ben poca cosa rispetto all’entità del flusso di denaro che passa per le casse dello Stato. L’individuo non si sente come parte del sistema, se non quando si tratta di imitarne le pratiche immorali. In Libor, il ruolo del padre affettuoso sottende la figura di uno squallido manovratore, che cura i propri interessi con strumenti illeciti, ma con la coscienza protetta da alibi di stampo grettamente qualunquista. Il suo microcosmo, attraverso il quale il film di Robert Sedlacek ci conduce da osservatore neutrale, è il nucleo familiare immerso nella sua anodina quotidianità, nella dorata monotonia della vita di provincia, che si direbbe poterlo mettere al riparo dal giudizio del mondo. Quel confortevole grigiore è, a ben vedere, il nascondiglio di una forma allargata di egoismo, nella quale il singolo crede di poter includere, senza remore, il sangue del suo sangue. Quel vincolo è destinato a sostituirsi all’amore, come collante di un’unione che finisce per essere basata, più che sul dialogo e sul reciproco sostegno e rispetto, sul mantenimento di un certo tenore di vita. Libor dedica il suo ultimo giorno di libertà a riconfermare il valore delle abitudini borghesi, con l’allegria spesa in alberghi costosi e l’amarezza celebrata di nascosto, a suon di bicchieri di brandy. Nessuna svolta, nessuna redenzione. L’alba di un futuro diverso e difficile è uccisa dall’ennesima, futile evasione, che manca il fondamentale obiettivo di preparare gli animi all’imminente addio. Long Live the Family riprende, nel titolo, il motto ipocrita di chi si compiace del proprio status quo, escludendo la coraggiosa possibilità di ripensarci e cambiare: ed è questa ottusa convinzione, più che l’accerchiamento della polizia, a non lasciare al protagonista scampo alcuno.
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