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Death of a Man in the Balkans

Regia di Miroslav Momcilovic vedi scheda film

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La recensione su Death of a Man in the Balkans

di Peppe Comune
8 stelle

Un pianista (Nikola Kojo) di una certa fama si suicida nel salotto del suo appartamento di Belgrado. Accorrono subito i vicini, Aca (Emir Hadžihafizbegovic) e Vesko (Radoslav Milenkovic), poi le rispettive mogli, Nada (Nataša Ninkovic) e Vera (Anita Mancic). Intanto che aspettano l’arrivo dell’autoambulanza e della polizia, i vicini cercano di ricostruire l’esatta identità del morto, di cui non ricordano neanche precisamente il nome. Sanno che era un pianista perché lo sentivano sempre suonare e che viveva da solo. Il primo ad arrivare sul luogo del suicidio, senza che nessuno sappia chi l’abbia avvisato, è un addetto alle pompe funebri (Bojan Žirovic), che si mette a prendere le misure del corpo per fare la bara. Poi arriva un agente immobiliare (Nikola Djuricko), il quale, nonostante la presenza di un cadavere in mezzo alla stanza, fa visitare l’appartamento ad una acquirente (Mirjana Karanovic). Quindi il ragazzo delle pizze (Miloš Samolov), che dice di aver ricevuto l’ordine dal padrone di casa. Finalmente arrivano i medici (Milica Mihajlovic e Bojan Lazarov), che non possono fare altro che accertare la morte avvenuta. E infine la polizia (Ljubomir Bandovic e Branislav Trifunovic), in compagnia del medico legale (Aleksandar Djurica). Ecco, la stanza diventa un via vai continuo di persone, che mangiano, bevono prendono cose perché “tanto al morto non servono più”. E nessuno sembra preoccuparsi della presenza di un uomo morto suicida.

 

Death of a Man in the Balkans - Scheda Film | Horror Pills

Death of Man the Balkans -scena

 

Un uomo è in piedi in mezzo alla stanza, si muove per aggiustare meglio la webcam posizionata sopra quello che poi capiamo essere un pianoforte. Perché l’uomo si siede e comincia a suonarlo, solo qualche accenno però. Poi lo vediamo piangere. Intanto che osserviamo l’uomo, passano sullo schermo i titoli di testa e su una dissolvenza in nero sentiamo uno sparo. L'uomo si è suicidato e il corpo del cadavere rimane fuori campo per tutta la durata del film. Così inizia “Death of a Man in the Balkans” di Miroslav Momcilovic, un film divivida intelligenza che colpisce per comesembra divertirsi a nascondere le sue reali intenzioni, per come mette al centro della sua analisi l’indifferenza con cui ci si rapporta con la morte proprio mentre è proprio attraverso essa che si imbastisce una divertente commedia umana. Da un lato, si fa del metacinema in maniera dichiarata, perchè dietro la forma esile conferita alla messinscena è rinvenibile l’intenzione di riflettere sul rapporto tra la chiara finzione cinematografica e la vita che recita sé stessa in presenza dell’obiettivo della macchina da presa. Dall’altro lato, si tende ad andare oltre la stanza in cui tutto si svolge, perché dietro i dialoghi strampalati che non portano da nessuna parte (tipo “si vedeva che voleva morire, ieri ha comprato un’anguria intera”), si scorgono in filigrana il carattere di una nazione e le turbolenze belliche che non molti anni addietro sconvolsero l'ex Jugoslavia. Dell’inizio del film già si è parlato, va aggiunto che così prosegue fino alla fine, con la webcam accesa dal pianista che rimane a riprendere tutto ciò che avviene nella stanza, come se si trattasse di una candid camera intenta a scrutare il comportamento delle persone di fronte alla concreta presenza della morte. Un progetto di ripresa ideato da chi, insieme ad aver architettato il suo suicidio, ha evidentemente previsto la presenza di ogni persona che entrerà nel suo salotto di casa.

Le immagini sono rigorosamente fisse, l’unico spazio visibile è quello imposto dai limiti dell’inquadratura, il tempo filmico corrisponde esattamente a quello reale. Si direbbe che l’impianto della messinscena è tipicamente teatrale, se non fosse che i personaggi che escono (senza saperlo) dall’inquadratura non cessano di rimanere centrali nell’economia della scena e che la protagonista indiscussa del film rimane la morte fuori campo.  Quello che emerge è un effetto volutamente straniate, colmo di situazioni che oscillano dall’improvvisazione grottesca (“Ma ti pare normale scoreggiare nella casa di un morto venti minuti dopo che si è ammazzato ?”, dice Aca a Vesko) al cinismo calcolato (“Ma non si poteva ammazzare in un parco, gettarsi da un ponte ? Che stronzo !”, si dicono i vicini mentre parlano del “deprezzamento” potenziale che potrebbe subire il palazzo). I personaggi entrano ed escono dalla stanza, popolata da un'animosità di spirito che non ha nulla di tragico, da una curiosità vorace che arriva a farsi morbosa. Tutti sembrano impegnarsi nel voler ricostruire l’esatta identità del morto, ma dando mostra di non interessarsene per davvero. Ognuno fa quello che è richiesto dalla circostanza del momento, c’è chi prende le misure della stanza, chi deve vendere l’appartamento e lo fa visitare ad una cliente, chi prende degli oggetti dalla casa perché “tanto al morto non servono più”, chi porta le pizze, chi si mette il vestito buono perché attende l’arrivo della televisione. Insomma, si mangia e si beve “tanto è tradizione bere in onore dei morti”, dimostrando una lontananza emotiva dal corpo ancora caldo di un suicida che è pari solo al fare superficiale che caratterizza il comportamento di tutti.

Eppure c’è del tragico dentro questo palpabile senso del ridicolo, emerge una macchia incancellabile oltre questa “invisibile” presenza della morte che non genera nessuna traccia di dolore. E Miroslav Momcilovic è bravo a delineare almeno due aspetti in chiave metaforica. Il primo, è la banalità con cui viene trattata la morte (“Uno che ascolta questa musica è portato al suicidio”, “Uno che ha tutti questi libri prima o poi si ammazza”), sintomo di una storia ancora troppo recente per non aver inculcato nel suo popolo la tendenza a farci l’abitudine. Poi c’è la figura tragicomica del “becchino”, che arriva prima dei medici e della polizia senza che nessuno lo avesse chiamato. Si aggira per la stanza, fa domande sulla vita del defunto, prende le misure per la bara, fa telefonate per organizzare il funerale. La sua diventa una presenza imprescindibile, arrivata a regolarizzare la morte avvenuta prima che la strada legale faccia il suo corso.

Il musicista suicida aveva previsto tutto, anche che prima o poi qualcuno si accorgesse della presenza di una videocamera accesa. Lo fa il medico legale e da quel momento tutti cercano di fornire una giustificazione al loro fare irrispettoso. Soprattutto un poliziotto, che cerca di dimostrare l’irreprensibilità del suo stato di servizio avvicinandosi alla webcam per mostrare i segni di una vecchia ferita. “Ma non c’è da offendersi, è la tradizione”, dice riferendosi alla pizza che ha mangiato. “Poi era lì, per il defunto, è una tradizione cristiana no ?”, domanda come per ricevere una pubblica assoluzione. Ecco, è bastato il sapere di essere osservato da un occhio meccanico per rimettere in riga il comune senso del pudore. Da quel momento il tono si fa più dimesso, si accendono candele per il “povero” suicida che “doveva essere un pianista veramente importante”. La morte ridiventa un fatto di forma che merita la sua adeguata rappresentazione.

Succede spesso che dei contenuti interessanti ed originali emergono in tutta evidenza in impianti narrativi affatto articolati. Come in questo caso, dove attraverso un’apparente semplicità si palesa un modo intelligente di fare Cinema.

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