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Death of a Man in the Balkans

Regia di Miroslav Momcilovic vedi scheda film

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La recensione su Death of a Man in the Balkans

di OGM
7 stelle

Un piano sequenza. Una webcam fissa. Ed un morto che non si vede. La cornice dell’inquadratura coincide con la storia raccontata, che occupa il margine esterno del dramma. Branko Matic, noto compositore serbo, si è sparato nel suo piccolo appartamento di Belgrado. In quel preciso istante esce di scena, mentre i protagonisti diventano gli altri, i vicini di casa, l’impresario di pompe funebri, i poliziotti, il ragazzo che consegna le pizze. Tutti continuano a vivere la loro giornata, solo temporaneamente interrotta e condizionata da quel colpo di pistola e dalla presenza di quel cadavere steso sul tappeto. Sono sempre se stessi, con i rispettivi problemi quotidiani, con le emozioni appena scalfite da quell’evento certo inatteso, ma, tutto sommato, appartenente alla natura delle cose. La sceneggiatura di questo film è un fine ricamo intorno all’indifferenza, articolato benché intessuto di banalità, cucito con paziente noncuranza sul canovaccio di una situazione dalla matrice tragica, ma dalla base neutra, sulla quale ognuno può imbastire ciò che vuole, ciò che capita lì per lì, ciò che gli passa al momento per la testa.  Tuttavia non manca mai la sostanziale continuità logica con l’avvenimento principale, a cui sono legati anche i gesti e i discorsi più futili, dalle pretese avanzate da Aca sulla cassetta degli attrezzi del defunto, alle smanie di sua moglie, che non vede l’ora di farsi intervistare dalla televisione. La morte rimane sempre e comunque il tema centrale, benché venga affrontato con una leggerezza che è una forma ruspante di serietà: un senso della gravità delle circostanze, stemperato però nella modestia tipica delle gente comune, che si tiene rispettosamente lontana dalla profondità, anche nell’interpretazione del lutto. Così, nella cosiddetta tradizione dei luoghi può rientrare tutto, dalla bevuta in onore dello scomparso all’accensione delle candele, accompagnata da frasi di rito e facce di circostanza. In mezzo ci può finire anche un compiaciuto culto del luogo comune, come quello secondo il quale in Serbia non ci si comporta “come in Svezia”, dove si muore in solitudine, senza che nessuno si accorga di nulla. Il cinema balcanico sa trattare il cinismo con filosofia, mentre sotto sotto lo sfrutta come espediente narrativo,  al fine di offrire, attraverso la grezza psicologia dei personaggi, un pungente spaccato della società post-jugoslava. La rovina di fondo risiede nella difficoltà del vivere, tra servizi che non funzionano, istituzioni inaffidabili, famiglie disgregate e una diffusa tendenza ad ignorare le regole, non si sa bene se più per istinto di sopravvivenza o per una forma di furbesco individualismo. La modernità è ferma, come la macchina da presa, dentro i confini ristretti di un’esistenza-ripostiglio in cui si accumula roba di ogni genere, compresi i vecchi pregiudizi (il cliché dell’artista gay), la retorica di regime (l’elogio funebre dedicato ad una gloria nazionale), e le piccole utopie del benessere (il parquet di legno pregiato). Per capriccio, per pigrizia o per necessità, non si butta via niente, e tutto è buono per riempire il vuoto di una novità storica sopraggiunta solo per ribadire il concetto che il mondo è sbagliato, e spetta al singolo cercare di salvarsi come può.  

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