Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
Llewyn Davis è un personaggio dei fratelli Coen che appartiene alla folta schiera dei loro non eroi, gli sconfitti senza colpe come Giobbe – perseguitati dal loro dio crudele, o, per meglio dire, dal destino – a cui è negata la realizzazione di qualsiasi progetto a lungo accarezzato.
Rassomiglia al mite Larry di A serious man, o a Barton Fink, lo scrittore spaesato in un mondo che non lo capisce e che neppure lui capisce; o a tanti altri perdenti dei loro film, apparentemente molto diversi, come Donnie o lo stesso Dude di Il grande Lebowski.
Lewyn (Oscar Isaac), che era un eccellente musicista, nonché un sensibile poeta, scriveva canzoni stupende e le cantava in coppia con un partner, di sera, nei bar del Greenwich Village dei primi anni ’60, quando l’intera zona – al tempo dell’uscita del film tra le più snob di Manhattan – era un agglomerato sporco e maleodorante di case operaie poverissime.
L’amico, che condivideva con lui la passione per la musica e l’effimera gloria del successo serale, si era, purtroppo, gettato dal Washington Bridge, lasciandolo solo e senza risorse.
Da allora, le sue belle canzoni folk avevano acquistato una tristezza disperata e abbastanza insolita; piacevano molto ad alcuni intellettuali, ma non avevano grandi probabilità di affermarsi nel rischioso mercato musicale, dove editori e discografici stavano molto in guardia prima di investire i propri soldi, anche se ascoltavano Davis, apprezzandone il talento.
Nessuno metteva in dubbio la qualità delle sue composizioni e della sua voce, ma tutti gli chiedevano di scrivere testi meno cupi, e di sostituire il partner suicida per riprendere a cantare in coppia, secondo le abitudini consolidate del pubblico che alla coppia aveva decretato il successo.
Era proprio ciò che Llewyn non intendeva fare, continuando perciò a vivere fra debiti e vita di bohème, ospitato a turno, per dormire, dai facoltosi ammiratori della sua musica che la sera accorrevano al Village dalle loro belle abitazioni e che gli offrivano, per la notte, un divano accogliente.
Ogni notte, dunque, uno spostamento, tirandosi appresso quelle poche povere cose nelle quali ormai tristemente si compendiavano il suo passato e le sue speranze.
In una bella casa ospitale dell’Upper East Side, però, un bel gattone rosso, di cui il povero Llewyn Davis ignorava il nome, gli aveva scombinato i piani e gli impegni, fuggendo furtivamente al mattino, non appena egli aveva cercato di uscire.
Come Holly Golyghtly, lo aveva invano cercato nei vicoli di New York, proprio come lei chiamandolo a gran voce Gatto, finché, credendo di averlo riacciuffato, lo aveva portato con sé, in partenza per un’audizione a Chicago: inutile ingombrante fardello da trascinare insieme alla chitarra e ai pochi suoi dischi precedenti, durante l’altrettanto inutile e rocambolesco viaggio, nel freddo invernale, senza cappotto e con le scarpe sfondate.
Il gatto dei suoi ospiti ha un ruolo importante nel film: intanto sapremo presto che non è quello che egli aveva riconsegnato: un urlo forsennato della padrona di casa alla ricerca di un introvabile scroto lo aveva subito smascherato; di lì a poco il gatto di famiglia se ne sarebbe tornato a casa con le sue zampe – non per nulla si chiamava Ulisse –.
Il richiamo all’Odissea e all’Itaca ritrovata suona ironico e molto amaro per Llewyn Davis, condannato a peregrinare a vuoto e senza alcun approdo familiare.
La vita da homeless non era davvero il meglio per affrontare l’implacabile inverno di New York, la metropoli bella e spietata, capace di indurire ogni cuore: quello di sua sorella, che si era organizzata una vita piccolo borghese e non lo voleva fra i piedi; quello di Jean Berkey(una Carey Mulligan bravissima, quasi irriconoscibile nella sua acida aggressività), la cantante, partner musicale e moglie incinta del suo miglior amico, che temendo di portare in grembo, in realtà, un figlio suo, lo aveva apostrofato con terribili ingiurie e contumelie, costringendolo a trovare i soldi per farla abortire.
Tutti lo evitavano nel terrore che l’infezione della povertà si trasmettesse a loro, che contagiasse i loro figli, che attentasse alla rispettabilità mediocre che in qualche modo li accontentava e che non intendevano mettere in discussione.
Gli restava un padre a cui ricorrere nei momenti di bisogno: un vecchio operaio della marina mercantile, ora ricoverato in un ospedale per vecchi, demente e quasi dimentico di lui, evocato in una scena fra le più drammatiche del film.
La narrazione dei fratelli Coen ci descrive l’odissea di Llewyn, nel corso di una settimana e si conclude con una scena che, quasi circolarmente, ci riporta all’inizio del film: Davis è stato aggredito e lasciato pesto e sanguinante su un lurido e gelido marciapiede del Village.
All’interno di un locale, intanto, Bob Dylan si sta facendo le ossa e di lì a qualche tempo si sarebbe imposto sulla scena internazionale come l’innovatore del folk americano, confinando il povero Llewyn nella irrilevanza, ciò che ne conferma il destino di artista perennemente inattuale.
I Coen hanno dichiarato in un’intervista del 17 ottobre 2013 ai giornalisti Joachim Lepastier e Mathieu Macheret**, di essersi ispirati, molto liberamente, alle memorie del cantante Dave Van Ronk, da cui, in ogni caso, hanno tratto le canzoni e gli arrangiamenti musicali. Nel corso di questa loro lunga chiacchierata, essi hanno tuttavia escluso di aver girato un film biografico su di lui o su altri artisti dell’epoca ricostruita nel film.
Difendendo orgogliosamente la loro libertà creativa, hanno sostenuto che attenersi a una storia realmente accaduta avrebbe limitato troppo i loro movimenti e la loro legittima interpretazione della realtà, che è, infatti, a mio modestissimo giudizio, coerentemente e chiaramente riconoscibile.
Il loro incontro con l’attore-cantante Oskar Isaac ha permesso loro di delineare un profilo del tutto nuovo e originale di cantante, perché è stata proprio la peculiare voce di Oskar, profonda e vellutata, molto diversa da quella roca di Dave Van Ronk, a determinare il personaggio di Llewyn Davis.
La fotografia bella e malinconica, i colori luminosi e parzialmente desaturati ci danno l’impressione quasi fisica dell’inverno gelido di New York e dell’atmosfera fredda che circonda la sfortunata carriera di Llewyn.
Magnifica colonna sonora.
Film premiato nel maggio 2013 a Cannes con la Palma d’argento. (miglior regia)
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**Cahiers du Cinéma del novembre 2013 pagg.10/13
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