Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
A funzionare in “A proposito di Davis” è soprattutto la descrizione d’ambiente, fredda e grigia, spenta e smorta (merito dell’ispirata e suggestiva fotografia di Bruno Delbonnel, candidata all’Oscar), quasi come a voler trasformare la vita di Llewyn Davis in un film in bianco e nero, scevra di ogni impulso vitale e votata a una remissività afflitta. Puro stile fratelli Coen al 100%, che come già in passato (si percepisce in particolar modo un forte riverbero da “A Serious Man”) mettono il proprio loser al centro di un mondo inafferrabile e asettico, popolato da personaggi grotteschi (John Goodman) quanto piacevolmente sfuggenti (Justin Timberlake).
Certo, come tutti i film dei Coen può contrariare, annoiare e perfino irritare chi non si trovi in sintonia col loro stile, qui più presente e marcato che in molte altre loro pellicole. Ma è anche, duole dirlo, una delle opere coeniane più insicure, spaesata e inerte come il suo protagonista, che peregrina mesto e irrequieto per la Grande Mela ma sembra non crederci mai veramente, ingabbiato in un loop depressivo più auto inflitto che non scaturente dalle circostanze avverse.
Ispirato alla vita del cantante folk Dave Van Ronk, ma più in generale al contesto culturale inerente la scena musicale folk newyorchese di quegli anni, il film erra per 105’ lunghi minuti senza né una direzione né un vero e proprio punto di partenza. Aspetti che decretano la vacuità concettuale e narrativa di ciò che sta in mezzo a questi due punti cardine, ovverosia un viaggio che non è un viaggio, una ricerca che non è una ricerca, quindi una storia che non è una storia. Con un finale cerebrale quanto irresoluto che conferma la nullità sostanziale di questo povero – in tutti i sensi – excursus.
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