Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
«I need to breathe, don’t need to be a hero» canta Oscar Isaac in trio con Justin Timberlake e Adam Driver in Please Mr. Kennedy, inno anti-astronauti con cui i meravigliosi cantanti folk rivendicano il proprio diritto a «non essere l’uomo del secolo» e mantenere il basso profilo senza infilarsi in una tuta spaziale. A Llewyn Davis, che certo non vuole essere un eroe, basterebbe riuscire a respirare; gli basterebbe diventare un uomo serio, un mensch, per dirla in yiddish, come Larry Gopnik. Cantautore senza un quattrino, si muove in un labirinto cerebrale come quello di A Serious Man, negli stessi Sixties, ma se lì c’erano le villette linde dei sobborghi, qui è la Grande mela a inghiottirlo in un boccone e risputarlo fuori masticato. Per affrontare il freddo gli manca il cappotto, per vivere gli manca un pezzo, letteralmente: la sua metà artistica si è buttata da un ponte, la sua dolce metà non è né dolce né sua. All’ennesimo, memorabile perdente nella loro galleria di figurine votate al fallimento, i Coen fanno un dono imprevisto, quello dell’empatia: bloccato in un circolo vizioso, incagliato fra il parto sciagurato di un disco che non vende e la procreazione indesiderata di un figlio che non può crescere, Llewyn Davis è un paradosso umanissimo, un antieroe in cerca della sua evoluzione. Quasi una versione amara di Fratello, dove sei? con il folk al posto del bluegrass, generi che mettono in note la Storia d’America; l’Odissea scanzonata di Everett/Ulisse scolora qui in quella quasi monocroma di Llewyn, un altro man of constant sorrow che rifiuta le sirene del compromesso e va per la sua strada, anche se in autostop. Ulisse, d’altronde, è il nome del gatto, non il suo: per lui non c’è ritorno se non al punto di partenza, nello stesso vicolo dove il film era iniziato. Forse niente è accaduto, forse l’Odissea di Davis è racchiusa nella sua testa; forse, meglio di lui, saprà cantarla Bob Dylan, che sta salendo sul palco, prendendo il suo posto.
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