Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
Compassato, interdetto, algido. Il cinema dei fratelli Coen è puro esercizio di stile. Piace alla mente, appaga il senso estetico, gioca di sottrazione e tempi furbi, vive di luce cinefila. È dunque cinema intellettuale e non emotivo. Il folk invece è genere musicale basato tutto sul vissuto e sulla pancia. Ne deriva dunque un ossimoro di generi. Là dove l'ambiente e i protagonisti del Village rappresentano la spinta culturale, sociale e politica votata a un'esistenza anticonformista e avanguardistica, a una voglia di libertà e a una ricerca di nuovo (e a un'espressione artistica in qualche modo romantica perché pura, integra e a se stante, come il protagonista), i Cohen sembrano sarcasticamente destrutturare il mito (giocando spesso sul filo dell'ironia) e calarci nella disillusione più totale. Ecco dunque che per la sopravvivenza quotidiana ci si arrabatti per pochi spiccioli e necessità puramente alimentari, tasse, licenze. Quanto di più prosaico e antitetico all'iconografia del songwriter, un po' profeta, un po' demiurgo. Personaggi sconfitti, miseri e meschini, buttati là senza particolari pretese o cose da dire, arresi, rifiutati, spaesati. Nulla di nostalgico, solo una grande diffusa malinconia e il consueto sguardo cinico sul perdente di turno. Girano bene i Coen, niente da dire. Ma non basta. Vien da sè che l'unico a destare simpatia in questo valzer di mediocrità, mera casualità e frustrazione sia un bellissimo gatto rosso (o più di uno...). Un collante che strappa a più riprese il sorriso. Il resto è un vago senso di perdita e una manciata di buone canzoni, spesso un po' invadenti. Aspettando Dylan...
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