Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
L'assurdo sotto la pelle. Esibizionismo fra parentesi, sopra-le-righe sottile e assai raffinato e pura metriotes cinematografica nei toni comici e drammatici: tutto questo nella nuova malinconica commedia dei fratelli Coen. Lontani dalle esasperazioni noir (L'uomo che non c'era) e dalle contaminazioni di generi antipodici (Fargo), per non parlare del demenziale 'raffinato' di Fratello, dove sei? e de Il grande Lebowski, Joel ed Ethan fanno i conti con una nuova storia apparentemente banale, immobile, statica, che, ad una prima analisi, sembra non andare da nessuna parte, non voler prendere alcuna direzione e non decidersi fra commedia e dramma, ma che rivela in seguito la sua rotta dopo giusto un momentaneo senso di disorientamento, e che dunque conferma ancora il talento registico dei due grandissimi fratelli, ovvero una pellicola ben dosata e dal buon ritmo sincopato che tallona le disavventure (un po' per colpa sua, il più delle volte per colpa degli altri) di Llewyn Davis, barba baffi e chitarra alla mano, pronto ad esibirsi (in maniera abbastanza stanca) di fronte a un pubblico sparuto con il suo folk da repertorio e, dopo le sue performance, pronto a chiedere al primo che passa se ha un divano su cui lui possibilmente possa dormire quella stessa notte. E' solo il suo talento per il canto e per la chitarra a distanziarlo dalla condizione effettiva di senzatetto, insieme a una serie di amicizie più o meno burrascose e che si accompagnano, spesso e casualmente, a una buona dose di rancore (vedi il rapporto con la brava Carey Mulligan). L'ironia macchiettistica e a tratti addirittura acida della sceneggiatura permette di rendere il tono del film sempre sul ciglio di un burrone, come se ogni volta ci aspettassimo qualcosa, che avvenga qualche scatto dal punto di vista narrativo, per poi invece renderci conto (in maniera frustrante, così come hanno probabilmente voluto i Coen) che tutto quanto torna sempre com'è, anzi, gira in tondo, rivelando ciò che è buffo e assurdo della vita, e per estensione ciò che è deludente. Tutto questo senza mai una qualche bizzarria, né qualche guizzo: per molti questo significherebbe anche 'senza coraggio', 'senza osare', ma vista la filmografia dei Coen probabilmente hanno già osato abbastanza, e anzi, visti i precedenti, era davvero una scommessa azzardata quella di fare una commedia così apparentemente piatta, in cui quel che succede gira in tondo, non porta mai a nulla, si tronca sul chi vive, come a ribadire la successione costante e immancabile dei fallimenti del protagonista, che poi è un dispiegarsi continuo di realistiche assurdità.
Le varie esibizioni folk che si distribuiscono lungo tutta la durata rendono il film un viaggio tutt'altro che calligrafico nelle origini di una certa qual musica (chi è il capellone che suona chitarra e fisarmonica alla fine?) e in un periodo storico di cui interessa solo in parte l'integrità e la dignità di un intero genere musicale; ciò che interessa è osservare l'inerzia pedante e sconsolata di un uomo che trova nei momenti di musica attimi di pace ambiti ma spesso interrotti (o che sprofondano nel nulla, come l'esibizione di fronte al proprietario del teatro di Chicago) da una vita che è tutto un succedersi di gaffe (quella con Justin Timberlake nello studio musicale), di conoscenze fortuite (il viaggio in macchina con John Goodman), di legami (ir)rinunciabili (il mitico gatto, che poi si sdoppia, con conseguenze che nel loro piccolo risultano emotivamente devastanti, nel viaggio in macchina di ritorno da Chicago), di errori del passato (il rapporto proprio con la Mulligan) e di uomini che nell'incontro fra caricaturale e realistico ripercorrono questa stessa via ambigua e assai curiosa che i Coen hanno deciso di adottare per questo nuovo esperimento, da non sottovalutare e da guardare con attenzione, per le piccole chicche che nasconde sotto strati di attonito umorismo (il nome del gatto! il motivo del pestaggio dietro al bar!) e per un finale che, nel suo essere antispettacolare, apparentemente chiarifica, ma in realtà ha il coraggio di non consolare affatto. D'altronde neanche il protagonista si salva del tutto: se la maggior parte delle sue disgrazie sono giustificate dal comportamento altrui, spesso lui stesso, distratto e lontano (sicuramente disinteressato), non si cura delle persone che ha attorno, si fa prendere la mano, rinuncia a cogliere l'attimo fuggente (l'abbandono del gatto, la deviazione mancata per Akron), aumentando spropositamente quel senso di frustrazione che tutto il film reca in maniera sottile e invero raffinatissima. Percorrendo dunque la strada di questi generi intercambiabili, spaziando in maniera equilibrata dalla comicità a denti stretti all'asetticità di certi dialoghi, su tre corsie parallele (quella dei personaggi, quella della storia del protagonista e quella dello stile), i Coen si concedono questo ultimo piccolo film senza esagerare, per giungere a un prodotto di più che discreta qualità in cui è facile emozionarsi non per morti, tragedie o eventi appariscenti, ma per singole immagini, adorabili canzoni o emozionanti sequenze. Un po' di commozione sincera, di tanto in tanto, anche al cinema, oggi.
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