Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film
Il film non ha una storia né una trama, per questo abbiamo aggiunto il gatto. Sì, tutto gira intorno al gatto! (Joel Coen)
Una falsa biografia dove però c’è molto di vero: così potremmo definire Inside Llewyn Davis, l’ultima fatica dei fratelli Coen e meritatissimo Gran Prix della giuria al Festival di Cannes del 2013 che, ispirandosi alla figura di Dave Van Ronk (30 Giugno 1936 – 10 Febbraio 2002)[1] mette in scena un personaggio del tutto fittizio (ma più reale del reale) magnificamente interpretato da Oscar Isaac: il film è stata solo un’idea per molto tempo perché per farlo dovevamo trovare uno che stesse praticamente in ogni inquadratura, qualcuno che sapesse non solo cantare, ma anche suonare e soprattutto “interpretare” canzoni e ballate molto diverse fra loro. Che riuscisse insomma a trasmetterne il senso, lo spirito e la malinconia - dice Ethan Coen – Ci guardavamo intorno ma non vedevamo nessuno che fosse esattamente come volevamo noi. Eravamo fregati e abbiamo anche pesato di rinunciare… finchè non abbiamo incontrato Oscar ed e stato subito chiaro per noi che con lui si poteva fare: lo abbiamo coinvolto e ci siamo buttati a capofitto nell’impresa di realizzarlo.
C’è infatti molto di vero nel film, a partire dall’ambientazione: un accurato, nostalgico, pertinentissimo ritratto del Greenwich Village della fine dei ’50 e successivi, che fu la scena musicale in cui come ben sappiamo, anche un certo Robert Zimmerman che era arrivato a New York proprio nel 1961, fece la sua gavetta ed esplose poi col nome di Bob Dylan scalando le classifiche e dando fama a un genere (il folk ) che fino a quel momento era stato soltanto un piccolissimo, misconosciuto fenomeno persino poco remunerativo per gli artisti anche pieni di talento che cercavano di esserne gli alfieri.
In effetti la storia di Llewyn Davis (nome gallese per un personaggio che è profondamente ebraico nell’essenza e nelle radici), intende essere alla fine anche un indiretto, camuffato omaggio a Bob Dylan, originario come i Coen del Minnesota. Se Joel e Ethan hanno deciso di fare una scelta molto più radicale e coraggiosa nell’ispirarsi invece (anche se con molte variazioni) alla vita del chitarrista e cantautore morto nel 2002 lasciando incompiuta la sua autobiografia The Major of MacDougal Street (poi portata a termine dal giornalista Elijah Wald), credo non sia solo perché così hanno avuto l’occasione di mettere in scena un’altra litania della sconfitta (come ha ben definito l’opera Federico Pedroni) e di tornare di conseguenza – ma rinnovandosi parecchio – all’ispirazione più genuina e certa del loro particolarissimo “modo di fare cinema”, ma anche perché essendo stati ormai preceduti nel diretto tributo a Dylan (che forse anche loro avevano immaginato da realizzarsi in una forma molto distante dalla tradizionale maniera del biopic) dal tumultuoso, caleidoscopico e inusuale “transfert interpretativo” fatto giusto qualche anno fa da Todd Haynes con il suo I’m Not there, avrebbero avuto in mano ormai pochissimi assi da giocare e il risultato sarebbe stato in ogni caso decisamente poco originale e più scontato, oltre che meno interessante, come hanno sottolineato sornionamente gli stessi Coen nel corso di un’intervista.
Piuttosto che rischiare puntando sul menestrello di Duluth, meglio allora andare oltre e optare per un riferimento iconograficamente più diretto e calzante, su un’altra figura ugualmente di primo piano ma meno carismatica e conosciuta (e anche molto più “sfortunata”) come quella di Van Ronk (comunque amico - ma anche precursore - di Dylan, oltre che ispiratore di Joni Mitchell) da prendere a modello per poi “ricamarci” sopra quella di Davis, lasciando solo qualche ghiotta ma significativa indicazione intra-filmografica (oltre che musicale) ben nascosta nelle pieghe del racconto, da utilizzare come un subliminale rimando per suggerire in sottotraccia un tenue ma possibile (e molto affascinante) parallelo Bob/Dave/Llewyn. Il tutto, scecherato poi con qualche ulteriore spruzzata “situazionale” mutuata da altre storie musicali del periodo (Phil Ochs[2] nella fattispecie). Come spesso è accaduto anche nella vita reale di Phil Ochs, anche il nostro protagonista infatti al termine dei suoi peregrinaggi giornalieri, si trova costretto a dormire su molti divani improvvisati elemosinati all’ultimo minuto, a partire da quello della casa di una coppia di “amici” (se qualcuno si può veramente fregiare di questo nome nella sua girovaga esistenza solitaria) come Jim e Jean, anche loro cantanti con i quali si è trovato più volte ad esibirsi insieme dal vivo (con la ragazza veramente ha fatto anche qualcos’altro) dentro a quei locali fumosi e scalcinati del Village dove - come accadeva appunto in quegli anni di transizione dalla tradizione country al folk - ci si esibiva “rigorosamente” gratis di fronte a un’esigua e distratta platea di aficionados.
I Coen dunque tornando alle tematiche a loro più congeniali, provano a raccontare (e a mio avviso ci riescono magnificamente) una nuova e più moderna odissea: quella di un uomo alla ricerca non solo di un senso compiuto della vita, ma anche della propria Itaca, intesa come luogo in cui ritrovarsi e stare (e non a caso quel gatto intorno al quale gira intorno tutta l'opera, si chiama proprio Ulisse: chiaro riferimento all’Odissea ma ancor di più, io credo, a Joyce e alla sua “metafora” del viaggio circoscritto in un limitato spazio temporale). Nel farlo, nel parlare di nuovo di una “sconfitta” che conferma la loro sconfortata (quasi crudele) concezione del mondo, non lesinano però nemmeno il ricorso (altra pregevole costante del loro cinema) a una massiccia dose di cupo umorismo yiddish che aumenta l’empatia e la partecipazione.
Se dunque da una parte c’è il viaggio (in questo caso da New York a Chicago e viceversa) oltre agli incontri a volte malinconici, altre stralunati e quasi surreali che ci potrebbero far (ri)pensare a un Fratello dove sei? meno dinamico e molto più sofferto, dall’altra invece sono decisamente più chiari e immediati i rimandi (ma con molte novità che marcano altrettante differenze sostanziali) a due altre mirabili opere della loro precedente produzione (non a caso, due pellicole magistralmente ambientate – esattamente come questa - nel passato “dorato” della storia americana dei decenni fra il ’50 e il ’60 del secolo scorso, ma che a guardarli a posteriori, tanto “dorati” non lo erano proprio). Mi riferisco ovviamente a L’uomo che non c’era e A Serius Man, e in questa prospettiva, si potrebbe dire allora che Llewyn Davis è una variante (senza colpa) dell’Ed Crane del primo titolo (al quale si poteva imputare la diretta responsabilità per quel destino beffardo a cui deve piegarsi causata da una davvero interminabile e poco ponderata sequenza di scelte sbagliate) e soprattutto del Larry Gopnik della seconda pellicola citata, poiché a una prima lettura anche Llewyn Davis può essere considerato un’ennesima versione un po’ surreale di un Giobbe (il personaggio biblico del “giusto” su cui la malasorte infierisce in modo incomprensibile e violento) aggiornato ai tempi. Una similitudine però che è più apparente che reale. Gopnik infatti subiva e annaspava fino quasi a spezzarsi, a causa dell’inspiegabile – persino inaccettabile per chi non ha il dono della “fede” - accanimento di un dio insensibile e crudelmente sadico, una concezione anche “morale” della rassegnazione, che non sembra minimamente appartenere a Davis che pur nella sua atonia, è a suo modo quasi un ribelle a cui manca soltanto la voglia di agire. La sua figura ha quindi in sé qualcosa di inedito che lo differenzia dai precedenti "perdenti coeniani" poiché, come si è visto, non è colui che paga per azzardati comportamenti etici deliberatamente opzionati e dei quali (forse) ignorava o minimizzava le conseguenze, né tantomeno il “martire” sacrificale a cui si chiede la rassegnazione di accettare tutto. Non è insomma un “giusto” incomprensibilmente tartassato, visto che è proprio lui il primo responsabile della sua condizione, e questo non soltanto per superficialità e incuria, ma anche e soprattutto per un eccesso di inedia alimentato da un’ incapacità di adattamento che lo rende – citando Camus – straniero a se stesso.
Lo si potrebbe classificare allora come uno sfigato quasi “alleniano”, un perdente perseguitato in ugual misura certamente dalla scalogna, ma anche e soprattutto dalla sua stessa goffaggine esistenziale che lo porta ad evitare ogni forma di mediazione o di compromesso. Lui insomma è semplicemente un uomo che si inventa vittima per non voler affrontare le responsabilità, un disadattato che pretende di ignorare le variabili (anche impazzite) che la vita sembra suggerirgli, ma che lui non soltanto non vuole cogliere, ma si rifiuta persino di prendere seriamente in considerazione. Sa solo girare alla ricerca di se stesso fra le fredde vie dei quartieri cittadini o i desertici raccordi stradali delle periferie più lontane, che sembrano riflettere il senso di uno svuotamento dell’anima nello smarrimento quasi catatonico sferzato dalla neve, il gelo e le folate di vento che raffreddano anche i sentimenti (ammesso che ne abbia avuti). Non ha rapporti affettivi con nessuno e nessuno fa davvero parte del suo mondo: “sfiora” le persone solo quando è spinto dal bisogno (e la simbologia del gatto è calzantissima). A sua vota un "randagio" per vocazione, è un uomo che va diritto e in solitaria, alla fonte del suo sfigato destino che pensa di non meritare (ma che fa troppo poco per cambiare), e se in qualcosa davvero fallisce è proprio nel riscatto personale di cui avverte il bisogno, ma fa talmente poco per averlo, che rimarrà soltanto una chimera.
Un piccolo grande film insomma intimista e raccolto oltre che di straordinaria presa anche emotiva: splendida e accorata ballata folk che attraverso la parabola di un musicista (non abbastanza bravo, non abbastanza forte, non abbastanza “tutto” insomma) ci parla del male di vivere e di una normalità intrisa di irrisolutezza… e allora se Crane era l’uomo che non c’è, Davis è in fondo l’uomo che non è (o per meglio dire, quello che non intende né scegliere né accettare). Lui avrebbe un bisogno impellente di esistere, ma è totalmente refrattario a confrontarsi con il mondo, che sembra quasi contento di essere relegato nella marginalità, poiché più che non riuscirci, non ha proprio voglia di costruirsi alternative. E’ insomma in amorfo che anche per muoversi di qualche centimetro dalla sua immobilità ha bisogno della spinta di qualcuno: si affanna molto, è vero, ma più per casualità che per un reale impulso, all’inseguimento costante di un successo che – forse - anche lui sa di non meritare (ancora Pedroni lo definisce un personaggio in levare troppo geloso del suo ipotetico talento) che non ha una casa, un cappotto e nemmeno un paio di scarpe di ricambio ed è del tutto incapace di compiere scelte (umane, emotive, professionali) che possano aiutarlo a trasformare il suo percorso in una potenziale via di crescita. Un formidabile esempio di umana inadeguatezza insomma che è una vera e propria anticamera del fallimento poiché l’unica cosa che alla fine sembra aver imparato, è forse solo quella di essere più veloce a chiudere la porta per non far di nuovo fuggire il gatto.
Ma passiamo alle vicende del racconto (riepilogate qui davvero per sommi capi): dopo un’esibizione canora di tormentata rilevanza tra i fumi di mille sigarette di uno dei minuscoli locali che hanno reso celebre New York nel secolo scorso (l’unico momento in cui la vita, il destino, la carriera di Llewyn Davis sembrano funzionare) il nostro protagonista esce nella strada dove è affrontato e picchiato da un uomo misterioso pieno di risentimento. Una scena che ci appare quasi surreale e che dovremo aspettare la fine per capire il senso e la ragione di quel gesto. E’ infatti a partire da questa scena che ritroveremo ampliata nelle sequenze conclusive, che la storia definisce le sue linee in una consecuzio logica che sembra voler ruotare (o riavvitarsi) su se stessa e che subito anticipa il tema del “viaggio” in quel trovare rifugio in case occasionali per riposarsi su uno dei tanti divani di passaggio, un rituale che riempie gran parte del suo quotidiano peregrinare.
Subito dopo (e una nottata passata presso una coppia di “conoscenti” che rappresentano ogni volta la sua “ultima sponda), c’è l’incontro col gatto uno dei leitmotiv con cui dovremo (giustamente) fare i conti fino in fondo e successivamente viene umiliato da un’amica/amante che gli rinfaccia un approccio miserabile alla vita e lo accusa di essere (forse) il padre del bambino che sta covando in pancia.
Forse confondo troppo le idee procedendo in maniera così disordinata, e provo allora a rimediare adottando una forma un tantino più lineare: siamo nella New York del 1961 e Llewyn, cantante folk di estrazione operaia che, come abbiamo visto, non avendo più una casa propria e nemmeno un cappotto nonostante il freddo dell’inverno incipiente (ma porta sulle spalle un passato pieno di macerie e qualche lacerante rimorso), si fa ospitare per passare le notti al riparo, da “amici”, conoscenti e persino sconosciuti di buon cuore. Suonava in un duo, ma il suo socio si è suicidato buttandosi giù da un ponte, lasciandolo di conseguenza irrimediabilmente solo: il padre, ex marinaio, è ormai catatonico e la sorella non sopporta il suo disordine esistenziale e materiale, tanto che gli butta via anche uno scatolone con tutti i sui effetti personali, compresa la licenza che gli permetterebbe di imbarcarsi nuovamente su una nave.
Davis comunque incontra ugualmente qualche marginale simpatia nel suo accidentato cammino (che lui vanifica ben presto con un accanimento quasi maniacale). Riesce persino a far scappare per ben due volte un gatto che ritrova (anche se sotto mentite spoglie, quasi a voler simboleggiare che l’apparenza a volte inganna) ma che poi però riperde quasi subito per l’incapacità di mantenere stretto fra le mani qualcosa di concreto, ma che rimane probabilmente l’unico esemplare vivente che potrebbe davvero invidiare (e al quale potrebbe affezionarsi) per la sua sorprendente capacità di sapersi perfettamente orientare con quei suoi svegli occhi intelligentemente spalancati ad osservare il mondo circostante, che gli faranno persino ritrovare la strada per rientrare a casa (un altro dei “reiterati” ritorni di cui si nutre la pellicola).
In mezzo a questo bailamme, vero e proprio sfacelo esistenziale, Llewyn continua però a credere – un po’ come tutti gli artisti o aspiranti tali - di avere talento da vendere (e forse non si sbaglia: è solo fuori tempo) e che basterebbe un soffio (un discografico disposto a rischiare o un sensibile critico musicale preso nella giornata buona) per invertire la ruota… e avere alla fine un po’ di fortuna che resta latitante….
Dispensatore di prole sparsa per il mondo che nemmeno lui desidera né sa difendere, disfa e ricompone più volte la sua vita ma senza mai cambiarne la prospettiva (e non a caso il finisce con un profetico e ripiegato su se stesso “au revoir”…
Ci sarebbe molto altro da dire, ma preferisco fermarmi qui: il resto va visto e “assaporato” direttamente in sala (possibilmente in lingua originale), esattamente come la bellissima colonna sonora davvero da collezione (a partire da Farewell scritta e cantata dal grande “Bob”) “creata” e organizzata sotto la supervisione di T. Bone Burnett che aveva già lavorato con i Coen per Fratello dove sei?, eccellente musicista che ha suonato proprio con Dylan nel tour Rolling Thunder Revue (e non è un caso che sia stato scelto proprio lui a fare da “guida” musicale). Molte le splendide esecuzioni dal vivo: Please Mr. Kennedy; Green, Green Rocky Road; The Death of Queen Jane; The Old Triangle di BrendanBehan; Cocaine; Old MacDonald, solo per citare i primi titoli che mi vengono a mente, per altro intercalati da altrettanto intensi estratti di musica sinfonica (Chopin, Mahler, Beethoven e Schumann).
Un’altra graditissima sorpresa è stata poi quella di trovarci inserita anche Five Hundred Miles di Hedy West (qui, se non ricordo male, eseguita da Justin Timberlake, Carey Mulligan e Stark Sands) che fu una grande hit anche in Europa, Italia compresa proprio nei ‘60 nella versione francese (Et j’entends siffler le train) cantatala da Richard Anthony, come sicuramente ricorderanno quelli della mia generazione:
If you miss the train I'm on,
You will know that I am gone,
You can hear the whistle blow, a hundred miles.
A hundred miles, a hundred miles,
A hundred miles, a hundred miles.
You can hear the whistle blow, a hundred miles.
Lord, I'm one, Lord I'm two
Lord, I'm three, Lord I'm four,
Lord, I'm five hundred miles away from home.
Not a shirt on my back,
Not a penny to my name,
Lord, I can't go back home this away.
This away, this away, this away, this away.
Lord, I can't go back home, this away.
If you miss the train I'm on, you will know that I am gone,
You can hear the whistle blow, a hundred miles.
A hundred miles, a hundred miles,
A hundred miles, a hundred miles.
You can hear the whistle blow, a hundred miles.
Quanto al cast, oltre al già citato, bravissimo e davvero insostituibile Oscar Isaac nei panni di Davis praticamente sempre presente in scena (ottime e struggenti anche le sue performances canore), troviamo a fargli da corona, l’altrettanto eccellente Carey Mulligan (la “fedifraga” Jean) qui in versione bruna e dal linguaggio davvero molto colorito (vedi le battute sul preservativo) e Justin Timberlake, il suo “cornuto” partner canoro e sentimentale. Nel cast anche un ottimo Garret Hedlund (non a caso il Dean Moriarty di On the Road) imperscrutabile e silenzioso autista tuttofare nell’apocalittico viaggio sotto la neve verso Chicago insieme al jazzista eroinomane e obeso (straordinario cameo di un sempre godibilissimo John Goodman, presenza irrinunciabile di quasi tutti i film dei Coen).
Da ricordare ancora oltre al gatto (o per meglio dire “i gatti”) dalla fulva criniera e la coda dritta verso l’alto come un periscopio, anche F. Murray Abraham, il monolitico impresario impenetrabile alle lusinghe che frustra le aspirazioni di Llewyn con un inappellabile requiem.
Last but not least, rimane adesso solamente da ricordare l’eccezionale contributo della fulgida fotografia di Bruno Delbonnel (giustamente candidata all’Oscar) già con i Coen per il corto Paris je t’aime (avevamo già lavorato con Bruno ed eravamo certi di poterci fidare “ad occhi chiusi”. Ci siamo davvero trovati alla grande con lui: il suo è stato davvero un grosso apporto anche inventivo) che riesce a diluire i toni caustici della pellicola in un connubio di colori denaturati pieni di tristezza e di “abbandono”, perfetta rappresentazione non solo dell’ambiente e dell’epoca, ma anche dell’anima del protagonista. Una collaborazione importante la sua che non fa minimamente pesare (anzi fornisce un magnifico supporto di inedita cupaggine davvero interessante) l’assenza di Roger Deakins, abituale direttore della fotografia delle opere dei due fratelli che questa volta era indisponibile perché impegnato a girare James Bond.
[1] Artista di spicco del Newport Folk Festival, e figura di assoluto rilievo proprio del revival della musica folk nella seconda metà del secolo scorso, ma con alle spalle una formazione che traeva origine da un vasto repertorio di ballate e motivi tradizionali della cultura popolare della Gran Bretagna oltre che da canzoni di Bertolt Brecht, è stato un personaggio eclettico ed eterogeneo che si è cimentato anche nel rock and roll, nello swing e nel blues, generi e forme che non ha mai abbandonato nemmeno nei concerti che hanno accompagnato la sua vita fino a pochi mesi prima della sua morte per insufficienza cardiopolmonare avvenuta in un ospedale di New York dove era stato ricoverato per un cancro al colon. Compositore, cantante, chitarrista e arrangiatore (suo il moderno arrangiamento di The House of the Rising Sun) soprannominato il Sindaco di MacDougal Street, oltre che di Bob Dylan e di Joni Mitchell, è stato amico anche di Tom Paxton, Patrick Sky e Phil Ochs. Nel 1985, gli è stato conferito il Premio Luigi Tenco alla carriera.
[2] Cantante di protesta americano che si definiva Topical Singers, famoso per il suo sarcasmo tagliente, l’umorismo e l’attivismo politico. Dopo un periodo assai prolifico negli anni ’60 che lo videro fiero oppositore della guerra nel Vietnam, la sua salute lentamente declinò a causa dell’alcolismo che gli causò una psicosi maniaco-depressiva molto forte. Morì suicida nel 1976 all’età di 36 anni.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta