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Una piccola impresa meridionale

Regia di Rocco Papaleo vedi scheda film

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La recensione su Una piccola impresa meridionale

di OGM
8 stelle

Rinascere dal nulla. Insieme, e contro il mondo. Questa sarebbe la solita espressione di un’idea ingenuamente romantica, o fastidiosamente retorica, se non appartenesse all’essenza di una realtà davvero scalcinata, nella quale tutto  va male, le incomprensioni sono molte e le risorse poche. I presupposti sono pessimi per creare inutili illusioni. Concretezza e mediocrità la fanno da padrone, in questo microcosmo sperduto nel sud d’Italia, anonimo eppure pullulante di problemi, contraddizioni e strampalate fantasie. La vita e la famiglia di Costantino - prete cinquantenne di provincia, il quale ha abbandonato la tonaca per amore di una donna che subito dopo l’ha scaricato - stanno letteralmente cadendo a pezzi. La sorella Rosa Maria ha lasciato il marito Arturo per scappare con un ignoto amante. E intanto, si sa,  il paese è piccolo e la gente mormora. Bisognerà dire tutto all’anziana madre Stella, che difficilmente capirà, e che di certo ne soffrirà enormemente. Il trasferimento collettivo presso la vecchia casa del defunto padre, che era guardiano di un faro, si presenta come un temporaneo ripiego, il quale si rivelerà, a sua volta, una fonte di numerosi imprevisti,  piuttosto complicati ed anche imbarazzanti. La rottura della normalità non sembra un problema a portata delle persone semplici, abituate ai consolidati rituali tipici delle tribù, come i fidanzamenti ed i matrimoni celebrati “in casa” ed i mestieri che si trasmettono di padre in figlio. Per loro, infrangere la tradizione significa violare un fondamentale tabù, per poi ritrovarsi soli e malvisti. Quella proposta dal film di Francesco Nardi è la versione rustica di un’emarginazione moderna, la quale è determinata da antichi pregiudizi e che grava su valori ancestrali, radicati nella carne e nella fede, ma messi d’un tratto in subbuglio dalle follie della nostra epoca, che mescola le appartenenze e confonde le identità. La donna “per bene” si rivela omosessuale. La sorella badante litiga con la sorella prostituta. Il manovale è un acrobata circense che non ha perso il vizio del pericolo. Ed una bambina si può chiamare Mela, come il frutto, non come il diminutivo di Carmela. In questa storia la commedia è  un dramma, la cui serietà, però, è irrimediabilmente compromessa dal fatto di riguardare un gruppo di soggetti senza arte né parte, membri di una congrega dalle mille anime e dai contorni indefiniti, prodotta un po’ dal caso, e un po’ dalla disperazione.  Il disorientamento diventa allora un buffonesco teatrino dell’assurdo, in cui i personaggi si muovono con colorita goffaggine, compensando con una raffazzonata forza d’animo l’improvviso crollo di tutte le certezze. La povertà – di spirito e di mezzi – si fa in quattro per risalire la china, pur non sapendo bene dove andare. Ma questa deriva è troppo sgangherata per portare lontano. Si cammina poco, perlopiù girando in tondo e senza meta,  e così facendo, si incontra la salvezza ad un passo da casa.  Le disgrazie individuali, dopo essersi a lungo beccate a vicenda nel pollaio della sfortuna, finiranno per incastrarsi perfettamente in un variopinto mosaico realizzato con materiali di recupero, gioie rispolverate, rancori a cui si sarà grattata via la ruggine. Il riciclo del vecchiume apre nuovi orizzonti. Basta ripulirlo ed utilizzarlo in modo diverso, per vederlo splendere di una sconosciuta ed inattesa bellezza.  

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