Regia di Rocco Papaleo vedi scheda film
Non erano ancora passate le prime immagini ondulate e volutamente sfocate degli studios della Warner Bros, accompagnate dalla classica e solenne musica celebrativa, che già immaginavo una voce fuori campo (in questo caso la bella voce potente di Rocco Papaleo) ad aprire le danze dell’opera seconda del comico lucano, attesa con un certo interesse grazie all’esile ma brillante esordio/sorpresa di pochi anni orsono con “Basilicata coast to coast”.
Perché la commedia italiana deve sempre percorrere gli stessi binari della prevedibilità, del buonismo, della stilizzazione estrema dei personaggi, utilizzando una struttura risaputa e vista mille volte, ma pure paesaggi idilliaci che finiscono inevitabilmente per divenire un sottofondo posticcio e irreale? Che domande: per piacere alle masse, per accontentare con una elementarità disarmante i gusti semplici e poco sviluppati di un pubblico sempre più pigro che non accetta complicazioni o esperimenti, novità di narrazione o rappresentazione, scegliendo un prodotto che si uniformi il più possibile agli standard televisivi, di fatto ormai insostenibili per chi frequenta i territori del cinema vero, dell’arte cinematografica.
Sarebbe bello abbandonare tutto come fa il nostro preste spretato, sapendo che ci si può tranquillamente rifugiare in una vecchia proprietà posta su una rocca a picco sul mare; piacerebbe quasi a chiunque poter disporre di un paradiso in riva al mare, con tanto di casa colonica sormontata da un faro abbandonato, un tempo gestito dal padre del protagonista: un immobile fatiscente che per opera della Meridionale Ristrutturazioni diventerà un residence dal lusso ricercato e povero nello stesso tempo. Bei sogni insomma. Sognare per ora non costa nulla. Fa anche bene ridere un po’, quasi a sdrammatizzare tensioni familiari, su corna e unioni omosessuali impossibili ad essere comunemente accette, su gestione di figli contesi tra coppie divise, sul coraggio di intraprendere scelte di vita difficili ma più coerenti con la propria indole e le proprie attitudini.
In questo gracile contesto è strepitosa e superiore ad ogni altra interpretazione quella resa della madre di Papaleo, comicamente devastata prima dalla notizia della fuga dal marito da parte della figlia, poi della fuga dai voti del figlio maggiore: una Giuliana Lojodice davvero eccezionale.
Però alla fine tutto questo buonismo, tutto questo ottimismo di fondo finiscono per divenire un macigno indigeribile anche e nonostante le migliori intenzioni di noi spettatori, che restiamo certo incantati dalla bellezza di un paesaggio incredibilmente da cartolina, ma nello stesso tempo ripensiamo (anzi ripenso, probabilmente capita solo a me) con nostalgia alla parimenti bella costa (soffocata coraggiosamente dal bianco e nero, e quindi rappresentata come spettralmente vera, reale senza fronzoli o laccature di tappeti erbosi finti e mobili dal design povero ma ricercato) che faceva da sfondo al Kaspar Hauser rivoluzionario ed eccentrico di Davide Manuli di pochi mesi orsono: là dove non si canticchiano le orecchiabilità accattivanti della Caselli, ma dove un finto ragazzo con seno, ad impersonare un alieno caduto dal cielo, urla come un folle seguendo i tempi di un ritmo ossessivo e irragionevole che disorienta, devasta, ma appaga.
Forse per questa crisi snervante, forse in quanto non è più tempo per prenderci in giro od illuderci, ma tutta questa favoletta perbenista e a tratti anche lievemente comica, finisce per restarci indigesta per la stucchevolezza di troppi ingredienti zuccherini, che inevitabilmente traghettano l’operina più nei binari pieraccioneschi che in quelli dell’onesta commedia leggera fatta di addendi semplici ma genuini.
Peccato soprattutto per l’impegno di un Riccardo Scamarcio a tratti intenso e coinvolto come non capitava da parecchio, bravo pure a cantare, tragicomico con sconfini drammatici per rendere il personaggio più riuscito (ed umano) del film.
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