Regia di Rocco Papaleo vedi scheda film
Un'impresa parlar male del secondo lungometraggio diretto da Rocco Papaleo.
Affetta dagli atavici difetti delle commedie di evidentissima appartenenza regionalistica (fieramente “meridionale” nello specifico) e da una percezione/proiezione dello stato delle cose troppo buonista e consolatoria, Una piccola impresa meridionale mette in scena il ritratto ideale - o meglio: idealizzato - della famiglia allargata, come pure della concezione (lodevole ma distante dalla amara realtà) dell’accettazione di ciò che devia dalla “normalità”. Il tutto immerso nella natura stupenda di un bucolico paesaggio agreste-marino, il cui centro è un vecchio malmesso faro che rappresenta una sorta di rifugio/(auto)esilio per anime (dis)perse, accerchiate dal sistema chiuso (bigotto) del “paese”.
Manca un po’ di coraggio nell’andare oltre la favola agrodolce dai toni “formativi”: la morale se la canta e se la suona (in tutti i sensi) il consueto caotico circo(lo) di figure stravaganti (ma non prive di talento), catturate nel momento in cui (soprav)vivono da loser in condizioni precarie, che, a causa di una serie fortuita di circostanze, con l’innesco di una scintilla che non si può ignorare (i bisogni di una bambina e il legame col padre), trova le forze e le risorse per ristrutturare l’edificio fatiscente facendo lo stesso con sé stessi (metafora semplice, elementare ma di sicura efficacia).
Difetta insomma la visione d’insieme che dia profondità e pienezza al racconto; e qualcosa stride nella costruzione dei personaggi e delle questioni parallele che li riguardano: le legittime ambizioni di un’opera seconda e le sincere intenzioni rivelano a conti fatti un’ingenuità di fondo e una programmaticità dal volto “umano” ed “educativo”. Riscontrabile anche, nell’uso un poco invadente, forzato, di parti musicali per piano e canzon(c)i(ne) non proprio esaltanti ed adatte.
Eppure è indubbio che la pellicola sia pervasa da un candore folle e genuino, da una freschezza e vitalità che molte odierne commedie nostrane (anche di autori navigati e quotati) si sognano. Si diceva di ingenuità, certo: c’è quella che incide in maniera negativa sulla qualità dell‘opera, e quella a cui non si può guardare che con favore, perché si palesa in tutta la sua placida carica “eversiva” e fuori dal tempo.
Lo sguardo ottimistico di Papaleo si posa su valori (anche contrastanti, in apparenza) per formare un magma pittoresco (e dai connotati “wesandersoniani”) nel quale convivono la lentezza di gesti e (micro)mondi quasi irreali e la frenesia dell’oggi, le “libertà” acquisite (anche di sbandierare ai quattro venti la propria carriera di prostituta) e le “cose” - e persone - vecchie (si veda la ristrutturazione vintage del faro); e mondo strambo che presenta un prete che si spreta, un matrimonio lesbo (dal quale fuggono - unico solido lampo di aspra osservazione - i disgustati compaesani), una orgogliosa escort, i muratori itineranti, la badante dell’est, e un cornuto che, tutto sommato, la prende con sportività.
A dar contributo fondamentale sono la simpatia degli interpreti (Riccardo Scamarcio, il “cornuto” di cui prima, incluso), del quale la buffa maschera (e)strani(a)ta Rocco Papaleo è il fiero capofila, la bellezza (a forte rischio cartolina) delle locations, taluni episodi e duetti azzeccati (la rigidità della splendida Giuliana Lojodice in antitesi all’anarchia imperante), e l’esuberanza di una solare Barbora Bobulova sinceramente irresistibile (ma nessuno dei maschietti lì presenti ci prova: fantascienza!).
In sintesi, e in definitiva, stante quanto sopra rilevato, il divertimento è assicurato, e la visione assai piacevole.
Anche se, mentre partono i titoli di coda, una domanda (retorica) si fa largo: ma per i lavori di restauro c’era o no una qualche autorizzazione edilizia?
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