Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
“Com’è essere sobri? E’ uno schifo..” Cosa può chiedere ancora al suo cinema, Scorsese, se non di smentirne le peculiarità, di trasformarsi in altro, di spostarsi su luoghi e territori per lui inusuali? Se The departed sembrava ancorarlo più o meno bene all’originale, Hugo Cabret avrebbe potuto assecondare questa teoria, ma The Wolf of Wall street lo riporta nel conosciuto e non a caso i commenti positivi sul film parlano di uno Scorsese ritrovato, ricollegato a Goodfellas e a Casinò. Pericolosamente direi, già dal punto di vista formale tenere un ritmo forsennato come quello di The Wolf of.. espone ad un susseguirsi di immagini che da un lato innescano una forza seduttiva continua ma che non permette mai di soffermarsi su quei personaggi che ne caratterizzano lo sviluppo. Il tono enfatico e adrenalinico del film non fa altro che tenere lo spettatore incollato alla storia, di cui peraltro lo sfondo morale e sociale è cosa ben nota. L’istrionico Jordan Belfort che arringa il suo staff è coinvolgente, trascinante, ma perché ripeterlo più volte, quando bastava rimarcare la ferocia del mondo degli agenti di borsa con pochi azzeccati frame? Avrebbero ridotto la portata del personaggio? No di certo, ma contribuisce a focalizzarsi su ciò che lo anima, il desiderio di arricchirsi ad ogni costo, nel puro spirito del regista “di elevarsi” dalla propria condizione materiale e soprattutto morale. La società dei brokers che Jordan costruisce nasce dal basso, da quel fango in cui i personaggi scorsesiani sguazzano, soldi, donne, cocaina estraniano dalla paura di un ritorno impossibile fuori da quel mondo illusorio e fagocitante. Non esiste però una sequenza in cui Jordan sia assente, in cui si manifesti ciò che si trova dall’altro capo delle sue telefonate d’affari, come se tutto fosse contenuto e limitato in una dimensione sognante o di felice delirio indotto da droghe e da comportamenti altrettanto falsati dei malcapitati polli da spennare. Scorsese riunisce ancora una volta il gruppo, la “famiglia”, la gang, (anche se si sottolinea che a Wall street non ci sono amici) in nome di un bene comune che una volta era rappresentato dalla sopravvivenza e dal riscatto e dalla redenzione di un soggetto a secondo dei casi inconsapevole o responsabile della propria solitudine. Nel film lo si annichilisce uniformandolo unicamente con il mito del denaro, che spalanca ogni porta compresa quella della prigione. Il registro stilizzato di The Wolf of ..resta col sorriso stampato sulle labbra del suo incosciente protagonista, i suoi momenti più tragici e più riusciti sono quelli collettivi, quando il credo di Jordan diventa sistema, modo di pensare degli altri, per esempio la discussione su come utilizzare i nani come oggetti del divertimento e la prezzolata rasatura dei capelli dell’assistente donna alle vendite sono devastanti nel loro senso tragico e volgare, fattori molto presenti in quel mondo di speculatori. Dopo però un’ora e mezza di film entra in scena l’elemento riequilibratore, il detective, che incredibilmente per come il regista ha sempre rappresentato è un integerrimo seguace della legge, inattaccabile dalle lusinghe di Jordan e dal sistema, se così può essere (ce l’ho auguriamo), altrettanto drogato di sete di giustizia e di rispetto delle regole. Non un ripensamento, non un micro ripiegamento da quel mondo semplice e normale che lo trasporta da casa al lavoro sulla metro. Non un gesto che induca a mettersi in discussione interiormente, un uomo senza prezzo, impagabile.. Ecco che allora Scorsese anziché mettere alla prova il bene, indirizza il male verso una moraleggiante via d’uscita, dove il percorso di redenzione sarà agevolatissimo e con un prezzo da pagare abbastanza basso, salvando Jordan e la mitologia del suo attore feticcio (il consueto bravissimo Di Caprio). La chiusura prefinale con la scelta musicale di Mrs Robinson versione rockeggiante sembra che voglia tirare il sipario su di un epoca, sui valori veri e presunti che l’hanno sorretta, in favore di quella passerella televisiva finale, fatta di vuote parole come se il bene e il male non avessero più un volto preciso ma fossero qualcosa di indistinto e comunque da accettare anzi peggio, da subire.
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