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The Wolf of Wall Street

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Wolf of Wall Street

di ed wood
8 stelle

Ero indeciso se andare a vederlo oppure no. Poi alcuni utenti di FTV mi hanno convinto. Mi chiedevo: cosa può dire di nuovo Scorsese sul "mal d'America" e sul "Dio denaro", su un Sogno Americano sempre più balordo, cinico e drogato, che non sia già stato detto nei vari "Goodfellas", "Casinò", "Departed" negli ultimi 25 anni? Cosa si può dire ancora del mondo malato e (ir)reale dell'alta finanza, quasi 30 anni dopo "Wall Street" di Oliver Stone, senza contare il recente sequel e tutti gli altri film che, in qualche modo, volenti o nolenti, hanno fatto i conti con le aberrazioni del capitale immateriale ("Cosmopolis" di Cronenberg, ad esempio), senza suonare retorici e ripetitivi? Cosa può offirci di nuovo Leo Di Caprio, nella sua galleria di personaggi nevrotici, spregiudicati e sovreccitati (scorsesiani, in una parola)? La risposta a tutte queste domande è semplice: niente. Proprio così: niente. Non c'è niente, di sostanziale, in "The Wolf Of Wall Street" (a partire dal banalissimo titolo) che non sia già stato detto nei precedenti episodi della saga sociologica scorsesiana iniziata con le pallottole dei "bravi ragazzi" e giunta (per il momento) alle parole con cui il "lupo" Jordan Belfort intorta i malcapitati investitori, di cui al massimo allo spettatore è concesso di ascoltare la loro titubante voce nelle conversazioni telefoniche. E allora perchè il film merita la visione? Anzitutto, per l'evidente stato di forma di Marty e della sua fida Thelma Shoonmaker, il cui travolgente editing lascia ancora una volta un senso di adrenalina irresistibile. Poi perchè sono tre ore che volano via come bere un bicchier d'acqua, con un'alternanza di pieni e vuoti, dialoghi e carrellate, trama e digressioni esemplare, di altissima scuola, come sempre più di rado se ne vedono oggi: e in questo il settantaduenne Scorsese può dare ancora lezioni a tutta Hollywood, grazie ad una verve narrativa che impedisce sempre al racconto, in prima persona con voce off, di cadere nel noioso didascalismo. E perchè Di Caprio dimostra di essere uno dei migliori performer del nostro tempo (e perdoniamogli pure l'irritante prova in "Django Unchained"), superando se stesso in un tour de force verbale e fisico impressionante. Ma c'è dell'altro: l'approccio concettuale/radicale alla forma. Se la sostanza del discorso (in soldoni: l'homo americanus è disposto a fare qualsiasi cosa per avere denaro e successo) è ribadita per la quarta volta in 25 anni (prima di "Goodfellas", del 1990, l'anti-eroe scorsesiano aveva ancora un'anima, una tensione morale, una sofferta componente spirituale; dopo sarebbe diventato un banale "impiegato" del male o del vizio), la forma raggiunge un ulteriore livello di levigazione e svuotamento di ogni residuo umanizzante o tragico: "The Wolf Of Wall Street" è un girotondo nell'assurdo quotidiano di una folle (ir)realtà lavorativa, familiare, sociale, personale, senza una vera progressione drammaturgica, senza scene madri, senza turning point, senza personaggi di spessore o veri antagonisti, senza brividi, senza catarsi. Bisogna dare atto a Scorsese di aver saputo restare al passo coi tempi, con questa epoca di post-modernismo sempre più astratto e teorico: in questo senso, "The Wolf Of Wall Street" pare ricollegarsi idealmente a "Spring Breakers" di Harmony Korine, per come entra nella testa del protagonista, adottandone lo sguardo sulla realtà e l'idea di mondo, per potere creare quello straniamento necessario allo spettatore affinchè eviti ogni empatia. Lo dimostra, in maniera abbastanza chiara, la sequenza (indefinibile nel tono, nè serio nè buffo) in cui Jordan prende una dose esagerata di Quaalude e, semiparalizzato, tira di coca per salvare Donnie dal soffocamento: il montaggio alterna le immagini di Braccio Di Ferro mentre assume spinaci per diventare forzuto a quelle di Jordan mentre sniffa. Questa visione cartoonesca, semplificata, esagerata della realtà è un evidente riflesso della mente "dopata" di Jordan: così come le svariate grossolane metafore che puntellano il film (dall'impiegata che per rifarsi le tette accetta di raparsi a zero a Donnie che preme insistentemente il tasto "de­lete" sul PC) riflettono l'esiguo orizzonte di idee, sogni, immagini che caratterizzano il protagonista. Jordan pare non avere nè passato nè futuro: non c'è alcun dialogo con la madre o coi piccoli figli; sua moglie è niente più che una bella biondona da scopare il più possibile e a cui regalare gli oggetti più preziosi, senza che lei abbia alcuna influenza critica sul marito; suo padre è una figura volgare, ridicola, marginale. Gli amici non esistono: solo colleghi "vendibili". Il nemico, un agente dell'FBI, è forse lo sbirro più scialbo e meno carismatico che si sia mai visto in un film: un fantasma. E così via. Ogni qual volta si presenta l'occasione per una scena drammatica, importante, dove l'interiorità dei personaggi possa finalmente emergere in tutta la sua forza emotiva, Scorsese provvede a dirottarla sui binari del grottesco quando non del comico, del futile, o al limite del patetico. Tre ore di film senza un solo cedimento, senza che questi automi di un mondo di plastica diventino finalmente personaggi, umani. Tanti dialoghi non portano a nulla; la seduzione su Naomi è una mera formalità, senza romanticismo; le discussioni coniugali sono sfoghi senza sbocco; quelle col padre delle farse. Non c'è spessore: è un film di "ultracorpi" siegeliani, di masse di anonimi aspiranti Jordan Belfort, dove l'ossessivo iperrealismo sfocia necessariamente nel ridicolo. Ad accentuare questo effetto contribuisce un cast quasi macchiettistico e un soundtrack senza capo nè coda (i Devo di "Uncontrollable Urge" a braccetto con la "Gloria" di Tozzi!), indististinto commento musicale all'indifferenza "storica" dei personaggi: si parte da un dato preciso (il "black monday" del 1987) e poi si perdono subito le coordinate, in un eterno presente post-storico dove i primi anni 90 paiono identici al 2014. Del resto, il fatto che a un certo punto si paragoni Belfort a Gordon Gekko, icona cinematografica del rampantismo finanziario, la dice lunga su come questo film sia volutamente inscritto/imprigionato in una ben precisa e collaudata mitologia filmica, che impedisce ogni tensione centrifuga. Uno Scorsese dunque inossodabile, indefesso, estremo, che non arretra e non tentenna: un puro, lucido, rigoroso cantore di un nichilismo impossibile da sradicare.

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