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The Wolf of Wall Street

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su The Wolf of Wall Street

di giancarlo visitilli
8 stelle

Il messaggio punk rock di Scorsese-Di Caprio è “vendere spazzatura agli uomini della spazzatura”. Manca poco per definirla capolavoro questa ennesima, grande prova del regista statunitense. La fluidità dei movimenti di macchina, la scrittura sarcastica e l’ironia pungente di una comunità addetta, o no, ai lavori, in cui ascende, declina e cade Jordan Belfort, broker newyorchese degli anni ’90, capace, a 26 anni, di cominciare a tirare su milioni di dollari con il suo giro di affari, sempre meno legali, fanno di questo film di Scorsese un’opera straordinariamente attuale, ad ogni grado e latitudine.

Più della droga, del sesso e del rock’nroll. Scorsese va oltre Shine a Light (2007) e, più dei suoi amati Stones, fa del potere, dei soldi, della droga e del sesso la sua battaglia perdente. La storia impressiona, anche perché The Wolf of Wall Street é tratto dalla vere vicende di Jordan Belfort, che lui stesso ha raccontato in un libro.

Scorse-Di Caprio, mai tale connubio è stato così felice, non conoscono la sobrietà (“Com'è essere sobri?”), nemmeno delle immagini. Tutto è eccesso quantitativo e qualitativo. Il lupo sa sempre riconoscere la sua preda e, nello stesso tempo, ha la grande capacità di riconoscersi vittima. Nel branco della finanza newyorkese, dove, a scorrere come fiumi, sono i soldi, tanta droga e, solo qualche volta, le manette.

Il ritmo è spiazzante, nonostante i 180 minuti di pellicola, ci si trova dinanzi ad un’opera per la quale si ride molto, non ci si scandalizza affatto, perché ogni imprecazione ha il valore aggiunto di accompagnare le immagini che ‘fregano’ più delle parole. Qui, finanche l’immagine fine a se stessa ha un valore aggiunto. Il mondo gigantesco e sfarzoso della finanza sono la grande bellezza di Scorsese. Perché, anche in essa c’è disgusto e appagamento, omertà e denuncia, sballo e lievità di una vita greve. Tutti gli uomini che hanno il compito di “togliere i soldi dalle tasche dei propri clienti” vivono protetti, come in una dimensione dantesca, in cui la rappresentanza di ogni girone è assicurata. L’orgia visiva scorsesiana si accompagna, come sempre, al ritmo ora andante ed elettrizzante del punk rock e poi del rhythm & blues, per mezzo di una colonna sonora che, da sola, vale il prezzo del biglietto.

L’esperienza visiva, alla fine, è quella di assoluto appagamento. Si ha la netta sensazione che un regista, fra i maggiori dei viventi uomini di cinema, non possa offrire di più. Ha già dato. Tanto, troppo. Lo aveva già dimostrato con l’immenso Hugo Cabret (2011), laddove la visione per mezzo degli occhi di un orfano ci aveva dato la netta sensazione di come stavamo arrancando al tempo (lì, quello che passa per mezzo delle lancette di un orologio), in quest’ultimo, per mezzo di un tempo che consumo, rode e corrode. Avanza, senza prendersi cura di noi. Semmai, ci si dovrebbe preoccupare esattamente del contrario. Da questo punto di vista, la commedia di Scorsese è più nera, che più nera non si può. Alla fine, nessun salvato e nessun redentore, in un moto perpetuo che mette in atto lo svolgersi di tante sciagure umane, che danno l’eccitazione ad alcuni e l’eiaculazione precoce ad altri. Ci si sente tutti come Umpa Lumpa, nella grande fabbrica di cioccolato, ma bianco, sfarinato in farina, ridotta a strisce, sotto lo sguardo protettore di un orsacchiotto/macchina da presa, vigile e che osserva, al modo della Monnalisa “in qualsiasi parte sei”. Tutti osservatori e osservati.

Lascia senza fiato l’inquadratura finale del film, in cui a riempire tutto lo spazio ci sono le immagini di tanti lupi, mai visti così straordinariamente mansueti ad una legge. L’inquadratura stringe più di qualsiasi recinto: contiene, ammansisce, preclude. In nome di quella stessa legge del branco. Che non distingue le vittime dai carnefici. Inseguiti e inseguitori. Lupi e agnelli. Proprio come il Vecchio Testamento, Scorsese si fa profeta di mondi nuovi.    

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