Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Ritorno in grande stile per Martin Scorsese. Un ritorno negli amati territori delle pulsioni viscerali che animano i suoi personaggi e a l’epica che contraddistingue il suo cinema. Il film sceneggiato da Robert Winter, racconta una storia del recente passato che le cronache compulsive contemporanee fanno apparire come di un altro secolo, macinate dalla memoria e confuse con altre storie simili. Ma non uguali.
Un roboante film di carne e sensi sull’ ascesa e caduta del broker finanziario d’assalto Jordan Belfort, spietato truffatore di fessi nella fabbrica dei sogni di Wall Street a cavallo tra gli ‘80 ei ‘90 nonché sguaiato dipendente da sostanze stupefacenti e sesso.
La storia di Belfort, fondatore dell’agenzia di brockeraggio Stratton Oakmont, è vera, tratta dal suo libro autobiografico nel quale racconta i vizi e le (poche) virtù dell’assedio al capitale di uomini determinati ad uno stile di vita promesso dalla distorsione edonista del più puro sogno americano post reaganiano : sex, drug e money. Manca il rock’ n’ roll, ma questi erano già gli anni del grunge.
Se ci si pensa bene c’è qualcosa di estremamente ingenuo nei sogni tangibili di questi disinibiti artigiani della truffa che spacciavano ad altri lo stesso sogno con determinazione militaresca. Non c’è la brama del potere, il controllo, l’inciucio. Rispetto a Bernard Madoff, criminale che cavalcò l’onda seguente, quella della piramide finanziaria senza fondamenta, questi signori sono dei bongustai della vita.
Il controllo lo vogliono perdere del tutto, contrariamente ai nuovi tycoon implementati e conniventi con una politica rettile. Perdono il controllo con l’uso smodato di droghe tanto da accostarsi come ferrea disciplina dello sballo ai Duke e Dr. Gonzo di Paura e delirio a Las Vegas, dove Terry Gilliam esplose tutto il suo talento visionario. Un modello di vita che non prevede l’infelicità, anelgesizzata dalle droghe; ne’ il senso di colpa lenito dai soldi. L’etica circuita dal sorriso. Anche la morte è sbeffeggiata, rimossa e eiaculata nelle incontrollabili pulsioni sessuali che rimuovono la noia dello spauracchio AIDS, in rapida ascesa. Il modello anni ottanta che imponeva il corpo come surrogato dell’identità, si trasforma nei primi novanta nel corpo come oggetto portatore di piacere e ad esso viene delegato il senso ultimo dell’esistenza. Soprattutto i personaggi non hanno evoluzione alcuna. Rimangono tali e quali per tutta la vicenda senza l’ombra di un dubbio che intacchi le loro azioni. Sono puri, loro malgrado. Sono figli naturali del capitale.
L’aspetto dell’epica esiste perché Jordan Belfort e compari vanno soli, animati solo dalle proprie capacità e determinazione (due aggettivi che latitano nel carnet dei moderni inciuci paramafiosi dei grandi gestori di capitali) contro ogni regola consolidata. Con genuina baldanza vanno contro le convenzioni, le leggi, l’FBI. Vanno contro il buon gusto, ogni limite umano, rispondendo solo ad un’etica interna e condivisa dal loro staff di sognatori quanto loro.
La differenza tra i pellegrini della Mayflower del 1620 e di tutte le successive generazioni di emigranti che costruirono fisicamente il sogno americano e il sogno di Jordan, è la brama di diventare milionario scalzando il mezzo dal fine. Quel buco nero tra desiderio ardente e realizzazione del sogno è riempito solo ed esclusivamente di sé elevato a potenza dall’uso della droga.
Di fatto The wolf of Wall Street non è un film sulla finanza, piuttosto è un film sugli appetiti umani, sulla dipendenza da onnipotenza ancora legata a una concezione materiale del potere, ludica, umida, umorale e felicemente grottesca. La fica migliore. L’auto migliore. La barca migliore. L’eccesso migliore. La droga migliore. Migliore rispetto ad altri, i poveri, gli sfigati, i lavoratori dai quali i personaggi vogliono differenziarsi per eccesso. Benché psicotica, resiste ancora una parvenza di materialità realistica nelle azioni della Stratton Oakmont e di Belfort se non altro per contrasto, prima della completa smaterializzazione della finanza e del suo senso ultimo ossia l’accumulo di capitale fine a se stesso.
Ci sono filamenti di gioia anni settanta nella patologica dedizione al sesso sfrenato, anche se all’ideale di cosciente libertà fisica condivisa si è sostituita una proficua mercificazione del corpo derivante proprio dall’esibizione del sogno di ricchezza realizzato. E a suon di mazzette di dollari, condiviso con plotoni di signorine ben liete di far parte di quel sogno. Cosi come le follie chimiche che se nei seventies trasformavano la realtà in qualcosa di lisergico per esprimerne il senso creativamente, nei primi novanta accelerano la realtà, la reattività, la resistenza per trovare tutte le risorse necessarie a mantenere il sogno di ricchezza e consacrarlo sull’altare del corpo. Creatività, a suo modo.
Siamo nell’era appena precedente Internet, il mondo globale e la finanza creativa strutturata sul debito. Il buon Jordan lo accenna e vede molto più lontano di quanto abbiano visto i sorveglianti che lo vogliono finito più per irosa gelosia e ottusa dipendenza alle regole che per un vero senso di giustizia. Prima che tutto sprofondasse con le pesanti connivenze tra politica e finanza, prima che alle porcate private si facesse schermo con una patina di purismo istituzionale, c’era qualcuno che si divertiva un mondo. Un uomo capace, reattivo, a suo modo leale, trascinatore e leader che voleva solo schiantarsi di sesso e droga.
Dipendenze, passione, accettazione del destino e di tutte le conseguenze, fino alla caduta finale. Di questo si parla in The Wolf of Wall Street, di Jordan Belfort e dei suoi bravi ragazzi , uniti per un ideale comune come una famiglia indivisibile. Bizzarra, ma sempre famiglia è.
Si parla quindi di un film profondamente scorsesiano, contenente tutti i temi cari al regista italo americano. Un affresco di una società in transizione verso la contemporaneità che ha il focus su un personaggio chiave, potente e carismatico la cui massa, come un astro luminoso, attira intorno a sé la più varia umanità pronta a farsi bruciare dal suo calore ma al contempo a risplendere della sua luminosità. The wolf of wall street è un film compatto, dal ritmo travolgente nella parte dedicata all’ascesa di Belfort per poi adeguare la narrazione rallentando il ritmo quando c’è bisogno di più introspezione e dedicare attenzione allo stallo e alla caduta del grande imbonitore.
E’ a suo modo un film corale vista la grande quantità di personaggi e stratificato in sotto trame, dalla fotografia folgorante immersa nella luce e nei colori un po’ kitsch del tempo, tanto da avere la sensazione di abitare un’epoca piuttosto che assistere alla parabola di un debosciato solista. Il registro grottesco si fonde con il drammatico, ne esce fuori una commedia della vita calibratissima i cui eccessi sullo schermo sono sostenuti da una narrazione serrata. Il pregio è quello di non eccedere in caratterizzazione, i personaggi nei 180 minuti hanno il tempo di stratificarsi e crearsi una personalità lontana dal semplice stereotipo.
Scorsese per dipingere su schermo tutte le pulsioni di Jordan Belfort utilizza ogni stratagemma possibile. Una voce over narrante, mai invasiva e che soprattutto non si sostituisce a ciò che deve mostrare, visto che il film senza pudori di sorta mostra eccome tutto quello che è possibile e forse anche di più. Fa parlare in camera il suo protagonista direttamente con gli spettatori ai quali in un paio di casi non fa mancare neppure il privilegio di udire i suoi pensieri. Il coinvolgimento è totale in questo film i cui sensi sono sollecitati senza sosta. Solito straordinario utilizzo della musica per una colonna sonora che vede Gloria di Umberto Tozzi in una delle tante scene cult insieme a Bo Diddley, Plastic Bertrand, Foo Fighters, Devo, John Lee Hooker e altri ancora.
Greed, addiction, sex, drug, money e un sacco di fuck. Di nome e di fatto. Fuckin’ time che martella sincopato, fottere il mondo, le convezioni, le donne, se stessi. Tutto questo è riassunto dallo sguardo da lupo, sottile, lucido e a suo modo divertito di Leonardo di Caprio, fantastico interprete di questa suite esistenziale potente e complessa come un brano di musica classica di cui egli è direttore d’orchestra, compositore ed esecutore. La sua performance è di altissima classe, mai sopra le righe nonostante il personaggio sia decisamente sopra le righe.
E’ un equilibrio fondamentale quello che Scorsese ha trovato con i suoi attori, capace di rendere l’eccesso del racconto e dei fatti di cui sono protagonisti, tenendo lontano l’eccesso della loro rappresentazione. Con Di Caprio , vincitore facile dell’Oscar questa volta, ci sono un fenomenale Jonah Hill, spalla di incredibile bravura, Rob Reiner, Matthew McConaughey autore di un fulminante cammeo che spiega nel giro di tre drink tutto il senso della finanza, Jean Dujardin. Una Margot Robbie da paura (mitica la scena delle mutandine – della loro assenza, per dirla tutta - nella stanza dei bambini) .
Sarebbe da ascoltare in lingua originale se possibile. Questo film fatto così di pancia, debordante e fisico deve avere le voci aderenti ai corpi altrimenti qualcosa inevitabilmente si perde. The wolf of Wall Street è un film realmente imperdibile che cresce nei giorni a seguire la visione. E crea dipendenza.
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