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The Wolf of Wall Street

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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Gangs 87

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La recensione su The Wolf of Wall Street

di Gangs 87
8 stelle

Stupefacente. Nel vero senso della parola. Un vortice di parole, musiche e sequenze spasmodiche che drogano lo spettatore. Esci dalla sala e sei dopato, inevitabilmente. È una sensazione strana, che colma piacevolmente. Un’abbuffata di cinema di qualità, solo a tratti deludente. Di certo non il miglior Scorsese che io abbia mai visto ma senz’altro in grandissima forma e lo dimostra soprattutto in quelle sequenze trascinanti (c’è ne sono un paio, forse più) in cui amalgama alla perfezione: fotografia, musica e suoni e il suo inconfutabile e adorabile occhio filmico. Ci sono le caratteristiche del marchio del Maestro: peccato e redenzione, ascesa e discesa, le noiose (a tratti asfissianti) sequenze iniziali, in questo caso rese appetibili dal frizzante incipit di presentazione, quelle scene di “inizio carriera” del Belfort che fu, ingenuo quanto svampito, quei dialoghi lenti alternati a immagini di multiforme bellezza. Indubbiamente la pellicola, ha delle pecche direzionali che, non sono eccessive ma influiscono sul risultato finale (se ti soffermi ad inquadrare, a rappresentare qualcosa o qualcuno più del dovuto…la noia è conseguenziale). Insomma, non è un capolavoro ma affascina e dopo l’effetto dopante di cui sopra, ti accorgi che ne sei già dipendente, che ha bisogno di tornare in sala. Ma tale necessità non è dettata tanto dalla curiosità morbosa di scoprire di più (tutti sappiamo che, ogni film, lascia qualcosa in più ad ogni visione) ma proprio reale esigenza. Ma cotanta dipendenza non porta tanto il nome di Scorsese quanto quello di colui che trasporta il tutto, che ti rende parte dei giochi, che ti inebria della sua immensa luce recitativa che riflette, stavolta più che mai, la scia dorata dell’omino calvo che tanto insegue e che da sempre gli viene negato: Leonardo DiCaprio. Ne vogliamo parlare? Anche se a volte sembra superfluo perché diamo per scontato che la sua bravura sia concreta e costante, qui è davvero necessario spendere due righe, sicuramente di più, per elogiarlo. Due ore e cinquantanove minuti di stati emozionali differenti, mai sul suo volto si è stagliata per più di una volta la stessa espressione. Volto camaleontico e sguardo mobile e concentrato, Leo pavoneggia per l’intero film, instancabile mattatore è il collante di ogni sequenza. Impossibile scegliere solo una scena che lo vede primeggiare e se leggenda vuole che durante la proiezione in una sala di non ricordo bene quale città, gli spettatori abbiano gridato in coro “Oscar! Oscar!” dopo la sequenza di un Belfort narcotizzato e semi-paralizzato che si trascina alla guida della sua Lamborghini bianca, io l’ho amato in una delle scene ultime, quando si accinge a lasciare l’amata società truffaldina e racconta gli inizi proprio prima della fine. In quel monologo lo guardavo come l’impiegata guarda Belfort e mi stava scappando un urlo quando lei gli grida il suo amore e quando lo fa ogni membro delle sua società, è lo stesso amore viscerale che ho provato io per Leo in quel momento. Comunque, ogni volta che si destreggia in scena, conquista lo spettatore ad ogni sguardo e ogni suo monologo è meglio di una corposa dose di Lemon. Belfort abita il corpo di DiCaprio in modo profondo, tanta è radicata la sua capacità di personificare, anzi impersonare, ogni qualcuno sia veramente esistito, qualcuno da poter conoscere e/o studiare. Nei biopic, Leo, ci mette corpo e anima ma qui si dimostra capace di essere un attore a 360°, con tutte le sfumature e sfaccettature che codesto ruolo contiene. Drammatico e simpatico, alterna gli umori come le espressioni su quel volto che mai si era alterato tanto intensamente nei ventiquattro film precedenti, mai così tanto, mai per così tanto tempo. Insuperabile da chiunque condivide la scena con lui: scompare Matthew McConaughey (non mi venite a dire che merita l’Oscar per un quarto d’ora di monofaccia aziendale in un completo che gli sta grosso come quei capelli sulla faccia smilza perché, se ne avete il coraggio, io avrò la capacità di dire che il cinema è per voi solo una parola, al massimo un luogo dove andare a perdere un po’ di tempo), Jonah Hill lo spalleggia con coraggio ma poi si perde, Margot Robbie, se non fosse così bella, passerebbe inosservata come la prima moglie o chiunque altro. Non c’è trippa per gatti, quando Leo prende in mano il microfono, si fa spazio nel mezzo della pista da ballo, “muove i muscoli” in mezzo alle donzelle e il naso su strisce bianche, c’è solo lui e la sua inarrivabile bravura che cresce ormai in modo esponenziale. È vero, io sono di parte, perche seguo e amo Leo da ben dodici anni ma non credo che nessuno oserà smentirmi se dico che: “The Wolf of Wall Street” è Leo DiCaprio. Togli lui e resta poco, quasi niente, solo una buona sceneggiatura, non originale, di Terrence Winter (che comunque non è Paul Schrader) che Thelma Schoonmaker monta divinamente (inspiegabilmente non candidata agli Oscar). Resterebbe il tono di Scorsese, un po’ appannato, qualche sequenza memorabile, ricordi che riaffiorano… non vi è venuto in mente nulla quando Jordan, seduto a bordo piscina, con il suo socio, rimpiange i tempi passati? Dai… diciamolo che sembra Jake LaMotta dimagrito! Perché, forse, più che lupo, Scorsese, vuole dimostrarci che, dopotutto, Jordan Belfort, è stato il toro di Wall Street e solo Leo sarebbe stato capace di renderlo davvero tale.

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