Regia di Claudio Giovannesi vedi scheda film
Alì, dagli occhi azzurri, è innamorato e in fuga. Della e dalla vita. La sua storia è ambientata nella stessa Ostia di Pier Paolo Pasolini, che sembra non cambiata da allora, se da subito il vissuto che ci si presenta è quello di due ragazzi sedicenni, che alle otto del mattino, dopo aver rubato un motorino, fanno una rapina, e alle nove, puntuali, si recano a scuola. Loro sono Nader e Stefano, uno egiziano, ma nato a Roma, e l’altro italiano, il suo migliore amico. Anche Brigitte, la fidanzata di Nader, è italiana, ma proprio per questo i genitori del ragazzo sono contrari al loro amore. Nader allora scappa di casa.
La storia è tratta dall’altrettanto bel documentario del regista Claudio Giovannesi, Fratelli d’Italia (2009): si tratta del terzo capitolo dell’opera. Quello in cui si racconta di una sorta di ‘barone rampante’ ai tempi dell’integrazione. Là dove non ci sono alberi come via di fuga, ma la strada, la peggiore, e tutta la vita che sopra vi avanza. Nader, infatti, disubbidendo ai valori della propria famiglia egiziana, fra la scelta se essere se stesso o arabo italiano, prende coraggio, attingendo direttamente dall’amore. Perciò sopporterà il freddo, la solitudine, la strada, la fame e la paura, la fuga dai nemici e la perdita dell’amicizia. A patto di (ri)conoscere la propria identità.
Si tratta di un bel film che, finalmente, racconta l’integrazione dal punto di vista degli immigrati, non delimitandosi a questo, ma facendo proprio anche quel confine disumano che c’è fra chi si sente al centro di ogni situazione e di ogni latitudine e chi alla periferia, come gli adolescenti che abitano la storia.
Alì ha gli occhi azzurri, in concorso alla 7° edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, è un film innanzitutto importante, oltre che commovente, capace di raggiungere le alte vette di un certo lirismo tipico della poesia di Pasolini, cui è appunto ispirato il film. E come non poteva essere così, se lo stesso regista, scrittore e giornalista che tanto manca a questo paese, nel lontano 1964, attraverso la poesia “Profezia” raccontò le vicende del mondo contemporaneo, con tanto di avvento di una società multiculturale. Giovannesi è bravo a cogliere il realismo più esasperato, quello che fa male, ai suoi stessi personaggi e a chi pensa di essere sempre e comunque dall’altra parte. A chi pensa che il mondo, mistificandolo con altri colori, possa sembrare meno disgustoso e cattivo. La camera sempre in movimento, nervosa e mobile, che pedina i personaggi, insieme al realismo cromatico della fotografia di un grandissimo, Daniele Ciprì, riescono a scandagliare i tempi, feriale e festivo, in cui tutti, stranieri e non, ci si riconosce come barconi alla deriva, vagabondi. E’ in questo riconoscersi che questo film può essere senza’altro considerato un vero e proprio viaggio di formazione, per chi va ma anche per chi rimane, nella convinzione di non potersi mai smuovere dalla ricerca di se, non privandosi affatto dello smarrimento, specie di fronte a culture diverse. A tal proposito, è interessante il continuo stringere della camera sui volti, con inquadrature ravvicinate, piuttosto che le scene d’insieme, quasi inesistenti. C’è molto dei fratelli Dardenne, insieme alle tante storie pasoliniane di borgata. Una vera e propria denuncia dell’incapacità del nostro paese di fare fronte ad un ormai quotidiano multietnico e multiculturale, in cui a lacerare le nostre teste, cariche di dubbi, non solo religiosi, sono le stesse tante contraddizioni che caratterizzano Nader.
Perciò, questo film, assolutamente politico, e della miglior politica, rende giustizia ad una condizione esistenziale che non è solo degli stranieri. Anzi, non è affatto extra, al di fuori del nostro quotidiano presente. A prescindere dal punto di vista e dal colore in cui ci appaiono le cose, la possibilità di vivere in fuga diventa indispensabile per chi non si sente unico e solo abitante di un mondo che ha tante sfumature.
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