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Alì ha gli occhi azzurri

Regia di Claudio Giovannesi vedi scheda film

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La recensione su Alì ha gli occhi azzurri

di alan smithee
6 stelle

Il cinema italiano giovane torna questa settimana, con la trasposizione di Acciaio ma pure con questo interessante film, nuovamente a parlare di disagi giovanili; di difficoltà ad integrarsi in una società che non appartiene al suo giovane protagonista, bulletto sveglio di origini egiziane, integrato alla perfezione tra il degrado urbano di una periferia romana oppressa da cieli plumbei e una caotica quotidianità vissuta di espedienti e sbrecciata da rapine organizzate in dieci minuti con motorini rubati sulla via. Una esistenza ribelle e mai domata, vita giovane avida di nuove emozioni, di nuove esperienze da bruciare per divenire adulti al più presto, sempre che ci si riesca ad arrivare.
Un epilogo concitato e con ripresa a spalla, traballante di urgenza, è un efficace espediente per documentare un furto con pistola alla tempia, organizzato o meglio improvvisato per comprare la “fedina” alla bionda ragazzina del protagonista, necessaria per renderla un oggetto di propria appartenenza, un baluardo di cui andare fiero in compagnia, ma proprio per questo da difendere a spada tratta, nonostante l’opposizione dei propri genitori musulmani, assolutamente contrari a favorire una integrazione razziale con un mondo occidentale che si tollera ma non si condivide, pur da ospiti ormai necessari.     
L’opera terza di Giovannesi, in concorso alla Festa di Roma di questi giorni, è un film vivo e vitale grazie ad un interprete che recita molto probabilmente se stesso o un clone che non gli si discosta molto. Ed è interessante percepire nella esuberanza e ribellione del giovane il desiderio di integrarsi nella società delle belle promesse, abbagliato dai miti effimeri ed illusori della ricchezza, dell’opulenza e dell’appagamento dei sensi, così ossessivamente osteggiati dalla dottrina musulmana. Mete ancora troppo lontane per essere anche solo scorte in un orizzonte troppo poco trasparente, ma così fieramente ricercate dall’egiziano Ali, bello e spavaldo sedicenne che da un lato rinuncia persino a certe sue peculiarità fisiche (l’ossessione degli occhi azzurri, resa grazie a due improbabili lenti a contatto cerulee) per “europeizzarsi” e dunque a suo avviso emanciparsi. Ma poi incongruamente e pur criticandolo apertamente, il ragazzo non rinuncia a tutto l’integralismo annesso alla sua religione, che tende inevitabilmente, tra le altre cose, a segregare la donna ad un ruolo servile e sottomesso; e in tal modo dimostra quello che è il grande controsenso di certa dottrina musulmana meno tollerante: predicare il rigore e l’osservanza di regole spesso pure mortificanti da imporre agli altri e poi cercare ogni mezzo per infrangere per se stessi tali dettami con sotterfugi e trucchetti subdoli; come e’ un controsenso portare avanti un rigoroso e orgoglioso tentativo volto a scoraggiare l’aggregazione tra due razze, due civiltà le cui caratteristiche, è vero, spesso mal si conciliano tra di loro, ma che avrebbero bisogno di più coesione e reciproca tolleranza per vivere più serenamente assieme. Ma non è una novità che la religione degli uomini serva spesso più a dividere che a creare fratellanza.
Piu’ che bello, un film vivo e vitale, animato da un vigore e una fierezza giovanili (ben rese dall’ottimo protagonista, forte della sua parlata sempre alternata tra il romano piu’ popolare e coatto e l’egiziano madrelingua) che non si arrendono alle inesperienze ne’ alle incognite di una vita piena di ostacoli e incertezze, in un mondo pieno di speranze che ti incanta con le sue promesse ma che non ti regala nulla, se non coltellate a sangue freddo nel ventre.
 

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