Regia di Claudio Giovannesi vedi scheda film
Nader è un ragazzo di origini egiziane ma nato e cresciuto a Roma, che trascorre le sue giornate insieme all'amico e compagno di scuola Stefano tra scorribande in motorino sul lungomare di Ostia, la relazione con una ragazza italiana osteggiata dalla propria famiglia di fervente credo islamico e la ribelle insofferenza di un'età di passaggio tra l'attaccamento alle proprie radici e la profonda esigenza di emancipazione culturale.
A causa di un litigio fugge di casa cercando ospitalità presso il dormitorio dove alloggia un connazionale fino a quando, a causa di una zuffa in discoteca, accoltella un ragazzo rumeno e si vede costretto a scampare insieme all'amico ai propositi vendicativi dei parenti della vittima. Finale a sorpresa.
Scritto dall'autore insieme a Filippo Gravino da un loro soggetto, è un racconto che modella attorno all'estetica 'neorealistica' di un litorale romano fotografato nelle sfumature plumbee da Daniele Ciprì, gli echi di una gioventù pasoliniana aggiornata al contesto di una modernità interraziale di una seconda generazione di immigrati che, non ostante lo slang romanesco e i costumi disinvolti, rimane fortemente ancorata ad una cultura familiare (familista) di sacro rispetto per i valori religiosi e ad allo strenuo pregiudizio di subordinazione della figura femminile alle logiche di una concezione patriarcale.
Cercando di governare con asciutto naturalismo la facile tentazione di una deriva melodrammatica, Giovannesi si muove bene nel contesto di un disagio suburbano (perfiferico) dove questi novelli ragazzi di vita passano dalla rapina a mano armata a una rissa in discoteca (diurna), dalla ribellione familiare alle prime esperienze sessuali, dall'acquisto di un'arma da fuoco al tentativo di una livorosa vendetta personale, mantenendo sempre una certa credibilità psicologica dei personaggi e una coerente verosimiglianza delle situazioni secondo la logica di una narrazione che segue la moda recente di una cronaca spicciola con i giorni di una settimana (nella vita del protagonista) sovraimpressi in doppia lingua (italiano ed arabo) sullo schermo, a scandire l'attesa di un finale che precipita verso la prevedibile avventatezza di un gesto inconsulto, di una tragica ribellione giovanile, di una frustrazione culturale che sembra ritrovare alfine la giusta misura di un lacrimevole ravvedimento. Peccati veniali comunque di un'opera coraggiosa che mostra con ostinazione una realtà difficile, la scomoda verità di una contraddizione sociale vista da una prospettiva non banale e che forse si estinguerà al prossimo giro di giostra (generazionale) quando i figli di questa mescolanza etnica e culturale avranno solo una lontana memoria del piccolo scontro di civiltà di cui sono stati testimoni e vittime i loro genitori. Nei succedanei di questa banalità sociologica risiede la cifra di un film che ricerca consapevolmente una sua morale, il significato didascalico di uno sguardo ostinato sulla realtà contemporanea. Alì indossa lentine colorate.
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