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Come il vento

Regia di Marco Simon Puccioni vedi scheda film

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La recensione su Come il vento

di Lehava
4 stelle

 

Non mi piacciono i film tratti da "storie vere": l'aderenza alla realtà è spesso un alibi, oppure una necessità.  Le difficoltà per cosa, e come, raccontare aumentano e, se non si possiede una propria poetica ed estetica forte, il rischio è di venire risucchiati: dalla necessità per poi crearsi un alibi. Emblematico, in questo senso, questo "Come il vento". 

 

Armida Miserere fu una donna straordinaria, nel significato primario di fuori dall'ordinario: in un mondo maschilista (il nostro) ebbe il coraggio di svolgere un lavoro maschile e tendenzialmente maschilista, e lo fece a modo suo. Non smarrendo mai la propria essenza di essere umano, e di genere. Non imitando, o seguendo la corrente, ma immaginando e ricreando una via altra. Passando attraverso l'impegno civile, la passione e il dovere. Fu pertanto, non solo "fuori" ma anche "sopra", "oltre" (al di là delle valutazioni politiche).  Per vocazione personale, intima e pubblica.

In questa "eccellenza" Piccioni vede la materia per un film, da distribuire nelle sale. E qui, il mio primo parziale dissenso: l'urgenza della comunicazione, a monito ed esempio, avrebbe dovuto indirizzare verso un altro mezzo di comunicazione: la televisione. Affinchè si potesse raggiungere un pubblico vasto, il più vasto possibile (non solo il manipolo di spettatori del cineforum, per altro in genere informati e formati intellettualmente un po' oltre la media nazionale), con una narrazione che avrebbe dovuto essere realista e realistica, senza troppi patemi interpretativi e formali. Sarebbe stato bello, vedere quel prodotto in prima serata, con magari un dibattito successivo. Al posto di qualche atroce fiction, tra rose, sostantivi altisonanti, pseudo-biopic di attori lontani etc. Avrebbe mai potuto essere? No. Un sogno .... Fatto sta che, così com'è stato pensato, strutturato, realizzato, questo "Come il vento" risulta un po' troppo televisivo per ottenere un buon giudizio in sala, e nel contempo quasi improponibile (soprattutto per il ritmo) per il piccolo schermo, anche in quel mondo dei sogni citato sopra.

Il problema è soprattutto registico: cioè sostanziale. Innanzi tutto la sceneggiatura è approssimativa e confusa. Necessari i sottotitoli di luogo e tempo, che comunque non evitano allo spettatore qualche difficoltà di troppo di comprensione. Le situazioni sono giustapposte, sovrapposte, ma mai veramente ragionate. L'analisi è lasciata esclusivamente nelle mani dell'interprete: errore grave, perchè anche in una narrazione a "occhio di bue" (tutta incentrata su un personaggio unico e singolo, come in questo caso) il protagonista agisce e pensa interiormente, ma soprattutto esteriormente (più che mai qui, con questo tipo di materia). E sta al regista delineare, sta al regista scegliere. Qui, purtroppo, a volte Piccioni latita - lasciando troppo, tutto, sulle spalle di Valeria Golino, che fa quel che può e riesce; a volte decide - sbagliando. Ne viene fuori una buona interpretazione, soprattutto per quanto riguarda la "sfera pubblica" (dietro il tavolo di lavoro, vestita in abiti militari, si ritrova la più convincente Golino-Miserere) anche se troppo si sfuma, si omette, non si interpreta, quando invece Armida Miserere fu chiara, dura, precisa. Incomprensibile ed insopportabile invece la definizione di questa figura femminile così interessante nelle sue sfaccettature intime e personali: tutto passa, in maniera semplicistica ed avvilente, attraverso il corpo. Il nudo iniziale, sgradevole perchè gratuito. Le troppo scene di effusioni, la perdita del figlio, non aggiungono nulla alla profondità della protagonista, non ricostruiscono i rapporti d'amore, di amicizia, di complicità e conflitto fra i vari personaggi.

Ammetto di avere provato fastidio ed irritazione: come se non si rendesse merito all'intelligenza e all'emozione di questa donna che è un po' tutte noi (alla disperata ricerca di comprensione, all'affermazione di sé, all'urgenza naturale della procreazione come atto d'amore) ma anche, appunto "sopra", "oltre" noi: nel coraggio di accettare un lavoro di responsabilità e pericolo, nella capacità di svolgerlo con rigore ed obbiettività, nel non sottrarsi, in definitiva, alle proprie passioni (perchè l'impegno civile è una passione, fra le più forti).

Più passano i minuti, più il tono generale si incupisce: tra il pedante ed il lacrimevole. Sottraendo troppo spazio a temi troppo importanti per essere solo accennati (il sistema carcerario, il senso della detenzione, la durezza, la colpa, l'espiazione, il recupero, la lotta alla illegalità etc). Partecipano a ciò dei comprimari non proprio all'altezza (ma c'è, ancora, un problema di scrittura), una fotografia ed un montaggio monotoni e appiattiti su parametri televisivi; una colonna sonora scontata.

Il "taglio critico/interpretativo" inesistente, le finalità ultime nebulose. Pure il titolo, purtroppo, sbagliatissimo. Corretto perchè "formalmente aderente alla realtà" (se ne capirà la ragione nelle scene conclusive) ma la sostanza è altro. E le parole vanno pesate, comprese. Non solo ripetute.  

 

“Io mi identifico spesso con gli uomini; quando cammino, dicono, incuto timore, fumo Super senza filtro, metto la mimetica militare. Ho 41 anni, sono sempre stata così, e morirò così, e non chiamatemi direttrice che mi manda su tutte le furie, io sono il direttore e basta."

Stralcio dall’intervista pubblicata su Io Donna del 15 Novembre 1997

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