Regia di Marco Simon Puccioni vedi scheda film
Armida Miserere. Due tragedie in uno stesso nome. Il personaggio è reale, e realmente tragico. Il 18 aprile del 2003 era venerdì santo. La sera, la processione del Cristo Morto attraversava le strade di Sulmona mentre, nel suo appartamento, la direttrice del carcere si toglieva la vita, sparandosi un colpo alla testa. Il fatto, allora, era passato quasi inosservato, forse perché la notizia era arrivata dopo una lunga serie di eventi analoghi, di suicidi di detenuti avvenuti all’interno di quel penitenziario. Ma le morti non sono tutte uguali, nemmeno quando avvengono nello stesso momento, nello stesso luogo, e con le stesse drammatiche modalità. Armida non poteva dirsi prigioniera, almeno non nel senso fisico del termine. I suoi quarantasette anni di vita li aveva trascorsi in costante movimento; partita da Taranto, la sua città natale, aveva attraversato tutta l’Italia, da nord a sud, in un cammino incessante e irrequieto, che l’aveva vista a capo delle carceri di Lodi, di Pianosa, dell’Ucciardone di Palermo. Era apprezzata, nel suo ambiente, perché faceva rispettare le regole. E per lo stesso motivo era temuta ed in parte odiata. Dagli uomini di cui gestiva le esistenze, ma anche e soprattutto dal Destino. Armida aveva girato tanto, ma non aveva mai trovato nulla. Quel poco che, per un attimo, si era illusa di poter avere, le era stato subito tolto. L’amore di un uomo, la gioia di diventare madre, l’occasione di poter ricominciare a vivere. Il film di Marco Simon Puccioni fa coincidere il tracciato di uno straordinario percorso professionale con il racconto di un autentico calvario affettivo, segnato da ripetute perdite e dalle conseguenti fughe determinate dal vano desiderio di dimenticare. La narrazione procede con l’umile lentezza delle storie che hanno paura di farsi sentire, che parlano sottovoce per non attirare su di sé la malefica attenzione della sfortuna. La gioia e il dolore sono cenni appena sussurrati, con la sorridente discrezione che circonda i segreti femminili. Valeria Golino sfodera tutta la sua energica delicatezza per interpretare il ruolo di una donna esteriormente forte, a tratti decisamente dura, eppure dotata di una sensibilità non comune. Il suo ondeggiare tra i toni timidi e sfumati dell’intimità e quelli rigidi ed autoritari della sua immagine pubblica si riflette nel ritmo incerto di un film che sembra continuamente sul punto di arrendersi, di rifiutarsi di avanzare, di rinunciare definitivamente ad inseguire un senso. Armida smette di credere, vacilla, eppure non cede alla tentazione di fermarsi. Il suo moto corrisponde ad una necessità ormai quasi del tutto svuotata di contenuto morale e di partecipazione emotiva: un impulso meccanico, alimentato da un freddo residuo della volontà, che le impone di guardare avanti anche quando, di fronte a sé, non vede più niente. Come il vento riprende, nel titolo, le parole con cui la protagonista si è definita, nella sua lettera di addio. E che, su questa sceneggiatura, hanno lasciato l’impronta, abbozzata, di una fremente ed irrisolta impalpabilità.
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