Regia di Marco Simon Puccioni vedi scheda film
“Come il vento” (2013) è l’ottavo lungometraggio del regista romano Marco Simon Puccioni.
Una produzione a più mani con sovvenzioni di Regione Toscana, Lazio, Sicilia, Marche, RaiCinema e con il Contributo dei Beni Culturali. ‘Tratto da una storia vera’ recita il film dopo poche inquadrature.
Una storia amarissima, grigia, fredda e di un’implosione struggente. Nella vita di una donna che ha manzioni prettamente ‘maschili’ si scontra il mondo familiare, lavorativo e tutto un contesto di regole. E sì che le regole dettano ordine e, forse, passaggio ad una speranza di civile convivenza ma non sempre il rispetto e l’ordine indicano una vita armonica, distaccata e di gioie minute giornaliere. In un contesto alquanto spento di parole inutili e permeato dall’essenzialità di discorsi ‘aspirati’ e ‘dettati’ il racconto veritiero dello scorrere del tempo, ansioso e tormentato, fatuo e dismesso, dà a Amida la cadenza di una sorta di pianto senza lacrime. Un vuoto di pace e una piena di acqua in cascata dove vuole riposare per ridestare la vera speranza del silenzio del dolore e del vivo ricordo di una carezza d’affetto.
Armida Miserere è una donna non come tante, direttrice di un carcere da una parte all’altra dell’Italia. Siamo in quello di Opera a Milano quando il suo compagno Umberto Mormile che nel carcere ci ‘viveva’ come educatore, fu ucciso in un attentato camorristico mentre era fermo con la sua auto davanti ad un semaforo rosso. Da lì la vita di Armida diventa una bomba ad orologeria dentro il suo animo: lacerato, dilaniato e completamente vagabondo. Le continue sigarette diventano il ‘calmante’ inutile di una situazione uscita fuori di pista. Armida (Valeria Golino) aveva già girato più carceri (Voghera, Pianosa, Ucciardone di Palermo, Lodi, San Vittore a Milano fino a Sulmona) e il suo percorso trova spazi nuovi, nuove vedute, nuovi giudizi, nuove perlustrazioni, nuove celle, nuove abitazioni ma il suo disiderio di un figlio e di una famiglia si infrange bruscamente e dolorosamente. La perditita al terzo mese del ‘figlio’ in grembo fino al cadavere del suo uomo che amava. Una vita di stenti di comunicazione inespressa e di soprassaturi modi di discplina ferrei e mai domi. “Cosa vuole lo Stato da me? Cosa vuole ancora…!?”, la direttrice interviene sul carcerato dicendo “Lo Stato sono io!” con un tono di ardimenti consapevoli (e quasi da teatro dell’oprera). Ecco la figura che rappresenta: il peso che ne sente, chi s’alza dentro, il fuoco d’ordine e il ghiaccio dell’apparenza fanno di questa donna un macigno, un tono denso e pesato che con voce sicura deve (e vuole) dare disegno di serietà e di valore del lavoro che fa (con passione).
“Il carcere….deve fare il carcere” amava (voleva crederci) ripetere spesso Armida e dava anche il senso all’educazione e alla riabilitazione ‘intellettiva’ dei carcerati. Dove c’era lei si ‘creava’ teatro che portava giusta crescita negli stessi condannati (giammai persi e abbandonati a se stessi). Quando arriva a Pianosa (ennesimo trasferimento) lo sconcerto è generale: “…non ci aspettavamo una donna…” ma la sua uscita in quel luogo perso dove i boss mafiosi la facevano da padrone fu testimoniata dai poliziotti del penitenziario con un affetto inaspettato (così il racconto veritiero del film mentre la ‘direttrice’ abbandona l’isola per successivo trasferimento).
Nel carcere di Sulmona (siamo nel 2003) Armida si sente completamente isolata con una solitudine lancinante e un dolore mai superato non trova nulla più per combattere un destino quasi voluto. Nella notte del 19 Aprile l’epilogo mentre il venerdì santo dava il suo percorso in città con la Processione del Cristo morto. E la visita di Armida ad una chiesa per vedere le immagini della Madonna sofferente e del Sepolcro (un’intimità diretta che il film tenta di far coincidere con quella della donna senza nessuno) sono la speranza di una ‘giusta’ fine. Una fine del dolore, Un inizio di pace mai raggiunta.
Valeria Golino ci mette tutto il suo ardore e il suo slancio con una recitazione monocorde, repressa, di basso profilo e con disfunzioni mai raggiunti: una prova positiva in un ruolo molto delicato e, va da se, difficile e impegnativo. Il film non cerca nessun compromesso nel raccontare la vita di una donna ‘di giustizia’ isolata, confinata e priva di mondi esterni veri. Conoscenze, modi e slanci tutti rivolti al lavoro che svolgeva. Belle le immagini di Palermo quando si concede uno svago di girare Palermo con il suo autista invece di andare a dormire. Una città assonnata e priva di ardore di luci diurne e piena di bellezze che Armida ammira con grande slancio e passione (quasi per dirci il regista e l’interprete che una città non è mai priva di ‘umanità’) come la sua voglia d’ ‘vivere’.
La festa in casa prima del tragico epilogo danno al racconto una connotazione di rottura dell’intimità, di bisogno di aria e di voglia di amore. “Se bruciasse la città” un titolo a doppia lettura che Armida arriva a cantare per se, per il suo uomo e per chi ha voglia di sognare.
“Come il vento” si disperde in una cascata di un fiume e nello scorrere inesorabile dell’acqua che il tempo di Armida lambisce e accarezza per l’ultima volta. Un fuoco represso di passioni che in polvere si svuota dentro le lacrime tormentate di una vita da ricordare, Una donna coraggiosa quella di Armida Misere.
Valeria Golino (Armida Miserere), Filippo Timi (Umberto Mormile), Francesco Scianna (Riccardo Rauso), Chiara Caselli (Rita), Mazzarella (Stefano), Francesco Acquaroli (comandante di Pianosa), Enrico Silvestrin (Comandante di Lodi), Giovanni Franzoni (PM Nobili) e Gerardo Mastrodomenico (PM Cardi) fanno parte del cast che merita un plauso per il lavoro professionale nel film.
La regia di Marco Simon Puccioni tende al documentarismo con sequenze di raccordo mai eccessive o facili e accomodanti (la sincerità di fondo non è mai meno).
Voto: 7. (le stelline non sono a metà).
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