Regia di Rainer Kaufmann vedi scheda film
Lei si chiama Fee. È un nome romeno, ma in tedesco significa fata. È una bambina sottratta alla sua famiglia con l’inganno, trasportata in Germania, venduta all’asta, immessa nell’infame mercato della prostituzione infantile. La vicenda è raccontata da due diverse prospettive: quella della bambina, indifesa e spaurita, e quella di una giovane agente di polizia, Karin Wegemann, che porta avanti le indagini nonostante gli intoppi burocratici e le resistenze esercitate da alcuni funzionari dello stato. Al giro appartengono diversi pezzi grossi: un senatore, un magistrato, e chissà quanti altri ancora. Il fenomeno, come rivela un informatore, è ovunque, si presenta alla luce del sole, avviene quotidianamente sotto gli occhi di tutti, ma solo chi vi è direttamente interessato lo sa riconoscere, decifrando il linguaggio in codice dietro al quale si nasconde: un particolare tipo di zaino per la scuola, un paio di scarpe da ginnastica senza stringhe posate a terra vicino ad un parco giochi, una determinata combinazione di colori. La sua segreta onnipresenza è l’aspetto più inquietante. Il mostro è enorme e sfuggente, perché è ben ramificato, e protetto in alto loco. La connivenza col potere lo rende invincibile: mentre si sottrae abilmente alla cattura, impedisce ai suoi persecutori di sfuggirgli. Si lascia intravvedere, ma mai toccare con mano, se non per un istante, quel poco che basta ad ustionarsi le dita. Il senso del dovere, la pietà umana ed il coraggio non sono sufficienti ad infrangere quel muro di gomma. Lo sperimentano sulla propria pelle i pesci piccoli di questa vicenda, quelli che, su entrambi i fronti, sono le vittime o i combattenti. La giustizia, nel suo complesso, non può – o meglio, non vuole – sconfiggere quella turpe realtà: è il provocatorio messaggio che il regista Rainer Kaufmann intende proporre all’attenzione di un pubblico il quale, a fronte di quella sconcertante evidenza, è invitato a rendersi conto di non poter delegare ad altri il compito di restare vigile e di lottare. A tutti, in qualsiasi momento, può capitare di essere testimoni di quel sudicio gioco. O di conoscere qualcuno che abitualmente vi partecipa. Saperlo fa riflettere, ma soprattutto mette paura. Questo film, per quanto rispettoso e misurato nei toni, ci vuole porre, senza mezzi termini, di fronte ad un responsabilità comune, che, se assunta in massa, può trasformarsi in una grande forza, mentre la sua negazione equivale all’omertà. Il silenzio diventa una colpa, non appena si capisce ciò che si vede. Operation Zucker è un’opera di finzione narrativa che svolge la funzione di un documentario, nell’aiutarci a superare la nostra cecità. La presa di coscienza inizia con l’informazione; ma se è supportata da una storia drammatica, coinvolgente e credibile ha maggiori probabilità di proseguire il suo percorso attraverso il pensiero e il cuore, rammentandoci che la consueta asciuttezza della cronaca è intrisa di sangue e lacrime, e di putridi e odiosi liquami che insozzano il corpo, e infettano l’anima.
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