Regia di Anton Corbijn vedi scheda film
Dopo l’esiziale parentesi abruzzese di The american, Anton Corbjin prova a riprendere quota. Il soggetto è strutturato, la firma di John Le Carré risuona con vigore così come il recente cinema da lui tratto (lo stupendo La talpa), il messaggio consolidato e attuale, ma scrollarsi certe scorie di dosso può rappresentare un freno, non solo nell’ideale di chi osserva.
In ogni caso, La spia non difetta per impegno e la presenza di Philip Seymour Hoffman è, per forza di cose, devastante, posizionata peraltro nel mezzo di un cast assortito.
In Germania, i movimenti di un uomo in fuga allertano il sistema antiterrorismo. La questione vede coinvolti un banchiere (Willem Dafoe) e una giovane avvocata (Rachel McAdams) che mette gli ideali davanti a qualsiasi altra cosa.
Nel frattempo, l’agente dei servizi segreti Günther Bachmann (Philip Seymour Hoffman) ha le idee ben chiare su come muoversi, ma deve misurarsi con un sistema poco incline ad assecondarlo.
Con A most wanted man, titolo assai più indicato del sintetico La spia, Anton Corbijn torna a essere centrato, quasi troppo, focalizzato sul cuore vivo del mosaico che costituisce, senza pensare troppo agli arricchimenti ornamentali, anche quando quest’ultimi potrebbero acquisire una rilevanza tutt’altro che trascurabile.
Da questo modus operandi, scaturisce un dinamismo soffocato, ma al contempo è assicurato il massimo riguardo quando si tratta di predisporre i diversi punti di vista
Il panorama è da nervi tesi, l’intelaiatura sicura, senza sbavature, tutta di un pezzo, lavorando ai fianchi tutto ciò che ruota tra apparenze e realtà, sulla visione che ogni soggetto interessato propone, in funzione della sua posizione.
In più, la scena è sorretta da interpreti che conoscono bene le consegne. L’ardore di Philip Seymour Hoffman è famelico, perfetto nel rappresentare quei voleri cui non fanno seguito i risultati effettivi per volontà superiori, mentre l’animosità di Rachel McAdams è da repertorio, per quanto di discreto effetto (come se State of play fosse dell’altro ieri), e Robin Wright vanta una sicurezza esecutiva consolidata (House of cards).
Da queste assunzioni di responsabilità, scaturisce un film meno efficace delle sue singole componenti, una spy story che si fa thriller politico, avvincente solo in parte, complice la peccaminosa realtà che ogni giorno si supera, con un finale che è, suo malgrado, anche un’elegia funebre per Philip Seymour Hoffman.
In un film che pare fin troppo controllato, pur cementando i paletti nei punti giusti, nella memoria comune rimarrà impresso soprattutto quel suo ultimo attonito, deluso e rassegnato sguardo.
Non è più tempo per i sogni, né per gli eroi.
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