Regia di Anton Corbijn vedi scheda film
A most wanted man è ben più riuscito di quel Tinker, Tailor, Soldier, Spy che svettava algido nel compiaciuto gelo della sua estetica e nell'altrettanto compiaciuta complessità della sua trama. A most wanted man è indubbiamente un esempio fondamentale di fluidità narrativa priva di sbavature, di costruzione scenica e filmica non eccessivamente convenzionale da un punto di vista estetico e di una regia che non ha le alte pretese di Alfredson ma neanche si chiude nei territori rassicuranti dei mestieranti. Anton Corbijn, verrebbe da dire che sa il fatto suo, basta andare a cercare qualche foto fatta a Tom Waits per capire che conosce i segreti dei chiaroscuri e dell'espressionismo, in generale dell'arte fotografica sperimentale. Con la macchina da presa a riprendere la realtà in movimento forse è un po' più timido (che si tratti di umiltà?), ma conosce certamente le potenzialità dell'immagine in quanto alle tonalità a volte noir a volte più accese di un film che sa essere teso e avvincente senza neanche una sparatoria.
A most wanted man si affaccia nella Settima Arte al servizio (segreto) della sua trama relativamente semplice e non arzigogolata come si è visto in altri casi tratti da Le Carré. Un giovane ceceno sbarca sulle coste tedesche ad Amburgo e cerca di mettersi in contatto con un ricco banchiere (Willem Dafoe) per un oscuro motivo tramite una giovane avvocatessa (Rachel McAdams). A pedinarlo per scoprirne le intenzioni una squadra di agenti speciali guidati da Gunther Bachmann (Philip Seymour Hoffman, incredibile, manco a dirlo), agente con "basso profilo" che non esita a illudere le persone in cui incappa durante il lavoro e a intrecciare rapporti umani spesso finti e "costruiti" ad hoc per ottenere quello che vuole (primo fra tutti, il giovane Jamal, la cui identità costituisce uno dei più ghiotti twist del film). Spesso le azioni che porta avanti Bachmann vanno fuori dalla volontà dei servizi segreti ufficiali, guidati da un capitano che avrebbe voglia di arrestare i criminali nell'immediato non appena li si scovano in flagranza di reato. Bachmann ha invece un metodo più sottile, e la sua ambizione lo spinge il più delle volte a portare pazienza e a sperare di poter beccare il pesce ancora più grosso.
"Serve un pesce piccolo per pescare un barracuda. E serve un barracuda per prendere uno squalo". E' diciamo questa la sua filosofia di lavoro, di vita.
Intestardito dalla volontà di prendere tempo e vedere dove può portarlo il caso del giovane ceceno Yssa, Bachmann ha 72 ore per cercare di portare avanti le sue indagini, coadiuvato dall'intervento influente di un'agente americana in trasferta (Robin Wright moretta) con cui intreccia un confronto professionale che sfocia nella riflessione politica sugli atteggiamenti americani e europei nei confronti della minaccia del terrorismo medioorientale.
Un film dunque di storia e di personaggi, di paranoie sociali travestite da "sicurezza" in borghese. Tutti i suoi aspetti risultano ben oltre la soglia dell'interesse (non ci sono eccessivi momenti di stanca, durante le due ore di visione), ma forse fin troppo scritti e costruiti a tavolino dalla sceneggiatura per convincere davvero. A trasportare l'intera baracca è Philip Seymour Hoffman, non solo in fatto di interpretazione (pure Willem Defoe fa la sua parte in maniera notevole, meno convincenti le comprimarie dell'altro sesso), ma in termini anche caratteriali: è l'unico personaggio che gode di reale spessore umano al cospetto di una giostra di individui più o meno orientati un po' manieristicamente verso un senso compiuto che contorna il film di un'atmosfera abbastanza schematica, che poco osa ma molto intriga. E' come se tutti "servissero" ai fini del "messaggio" finale, o meglio del puzzle narrativo che intreccia Andrew Bovell (sceneggiatore), e come se non si lasciasse spazio ad altro che non siano vezzi eccessivamente finalizzati. Apparte il fatto che la McAdams appare incredibilmente fuori parte, messa lì per ammiccare e inserire in maniera leggeremente stantìa l'implicita attrazione amorosa che la legherebbe al giovane Yssa, a convincere poco sono tutti i comprimari - il capitano dei servizi segreti; Willem Defoe che come altri personaggi sembra caricare su di sé le colpe del proprio padre; Robin Wright innanzitutto, che appare unicamente come strumento per lanciare un confronto tematico fra i metodi americani (democratici e falsamente idealistici) e quelli europei (più raffinati e materialisti). Questo nonostante sia proprio nella costruzione del personaggio di Gunther che il film prende il volo: a metà fra la malsanità del piacere di manipolare i sentimenti e gli umori degli altri e l'insofferenza nei confronti di un lavoro che in loop lo costringe a cercare, cercare, cercare, privandosi di primarie soddisfazioni, Gunther è il tipico antieroe che pur nella sua genialità lascia dietro di sé terra bruciata, gode dei suoi mezzi sempre giustificati dal fine, ma poi non sa qual è il vero fine delle sue azioni ("rendere il mondo un posto migliore", direbbe didascalicamente la superficiale americana voltafaccia Robin Wright). Così come Yssa, Gunther è disperso, procede avanti a disporre una tessera del domino dopo l'altra, e non vuole mai porre fine alla fragile sequenza, rischiando facilmente il totale fallimento.
A fianco di questa notevole costruzione di sceneggiatura (che per una volta si libera nei fatti dai vincoli della parola scritta), va detto che tutta la prima parte del film è decisamente più convincente della seconda. Se da una parte Corbijn ci fa (relativamente) affezionare a Annabelle Richter/Rachel McAdams con il ceceno Yssa in fuga dalle spie tedesche, d'altro canto seguiamo con gli occhi anche le stesse spie, dunque gli inseguitori, e tenendo presente che Yssa ha avuto veramente rapporti con il terrorismo islamico (probabilmente per poi cercare una vera redenzione fuggendo dalla Russia in cui era imprigionato), non sappiamo veramente per chi parteggiare, con il risultato di una dinamicità e di una tensione che tengono con il fiato sospeso. L'attenzione andando avanti rischia di scemare, ma il vigore visivo rimane sempre alto nelle mani dell'esperto Corbijn, tanto che al film si perdonano i tristi dilettantismi in cui a tratti, facilonamente, scivola.
Al procedere rigoroso del film pone fine una conclusione secca, forse prevedibile ma altrettanto schiaffeggiante, che riporta tutto al suo posto non in maniera accomodante, ma risbattendo in faccia al protagonista il cinismo profuso nelle due precedenti ore di pellicola. Rendendo il tutto un nulla di fatto, adocchiabile mestamente mentre osserviamo il protagonista che, contrito, se ne va.
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