Regia di Anton Corbijn vedi scheda film
Fa sicuramente uno strano effetto rivedere Philip Seymour Hoffman al cinema mentre ancora metabolizziamo la sua perdita. Non sorprende affatto, invece, la solita impressionante aderenza con cui tratteggia un anomalo agente segreto ciancicato e sfatto, consumato dall’alcool e dalla disillusione, con un tracollo lavorativo alle spalle e un’allergia sistematica alla politica e alla burocrazia. Hoffman è infatti Günther Bachmann, una delle ultime spie uscite dalla penna di John le Carré (in Yssa il buono, del 2008) e portato al cinema dal regista olandese di Control e The American, Anton Corbijn. Le vicende prendono vita ad Amburgo, nelle cui acque torbide, che aprono i titoli di testa, annegano le contraddizioni dello spionaggio occidentale intento a «rendere il mondo un posto più sicuro», ma mai più logico. Non fa eccezione il caso di un fuggitivo ceceno in odore di adesione al terrorismo che finisce sotto i riflettori dell’unità di intelligence tedesca diretta da Bachmann. Corbijn si muove bene tra le pagine del romanzo e ne asseconda lo spirito freddo e disilluso con una regia secca e sobria e un bel cast (Rachel McAdams è sorprendentemente brava, Robin Wright è inappuntabile, mentre Willem Dafoe gira a vuoto) e ne fa una riuscita riflessione sulle apparenze, la legittimità del dubbio, i confini della manipolazione e l’impossibilità di fare andare le cose per il verso giusto. Sarà ricordato come l’ultimo film con Hoffman, senza essere l’ultimo film con Hoffman, ma c’è molto di più.
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