Regia di Jan Ole Gerster vedi scheda film
Niko Fischer ha lasciato l’università, prediligendo agli studi una vita da flâneur in perenne escursione tra gli esterni berlinesi, dei quali provare a cogliere il senso. Il suo è un girovagare ondivago in compagnia di un amico attore, di una ragazza reincontrata dopo 13 anni o di un vicino di casa appena conosciuto. Frammenti di vita, esperienze accidentali come il fluire di un’esistenza senza motivazioni definite, né definibili. Un bianco e nero che accoglie e accompagna l’incertezza esistenziale di una generazione alla ricerca del proprio passato, per poter affrontare quel che verrà poi. Una regia solida, sebbene all’esordio, capace di adottare grammatiche e fissità stilistiche volutamente datate per riempirle, al contrario, di uno sguardo mobile sul reale e i suoi significa(n)ti. Un Falso movimento aggiornato al nuovo millennio - e inevitabilmente più elementare del predecessore in quanto a simbologie e profondità di scrittura - nel quale il calcio e il teatro sperimentale, il cinema e la televisione, la paternità e la morte finiscono per avere lo stesso valore. Cioé nullo, in quanto Niko Fischer continuerà a girare su se stesso, incapace di risolvere gli aperti conflitti con il padre, con la propria sessualità e, soprattutto, con l’elaborazione del presente. Al giovane perdigiorno messo in scena da Gerster manca il caffè, cui egli anela invano per tutto il racconto in un metaforico inseguimento di un risveglio in condizione di razionale sobrietà. Invece, in memoria di Buñuel, il caffè non sarà mai consumato e si potrà solo annegare nell’oblio di una vodka.
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