Regia di Jan Ole Gerster vedi scheda film
“- Insomma, si può sapere cosa fai nella vita? - Niente.”
Non si entra immediatamente nel mood di “Oh Boy” proprio perchè il film non fa nulla per catturare subito l’attenzione ma lascia semplicemente scorrere i primi minuti in modo che lo spettatore perda l’ansia di voler individuare una direzione e una meta. Una volta liberi da questa aspettativa possiamo sintonizzarci perfettamente con Niko Fisher, studente di legge berlinese la cui vita è ormai da tempo totalmente destrutturata: con la sua ragazza non funziona, il padre gli ha tagliato i viveri quando ha scoperto che da due anni non frequenta l’università, ha appena traslocato e vaga per l’appartamento vuoto fissando gli scatoloni che contengono la sua roba. Non sa cosa vuole dalla vita, forse non vuole niente, intanto osserva e pensa. E’ durante una di queste giornate randagie che lo seguiamo mentre incontra casualmente persone con cui entra in contatto senza opporre alcuna resistenza: senza un’occupazione non ha motivo di tirare dritto e costituisce quindi materia porosa e permeabile agli altri. Nascono dialoghi ironici e un po’ surreali, ogni soggetto incontrato (non) nasconde un’amarezza ma il film di Jan Ole Gerster non vuole sollecitare l’emotività, rimanendo sospeso in un apparente distacco che in realtà abbraccia tutti senza giudicare nessuno, perchè in fondo ognuno di loro è una sommatoria di dolori dati e ricevuti. In due momenti e in modo assolutamente antiretorico riemerge la dolorosa ferita della seconda guerra mondiale, che la Germania non può e non vuole dimenticare, con una riflessione sul fatto che la generazione che l’ha vissuta, dalla parte giusta o da quella sbagliata, si sta ormai esaurendo. Attorno a Niko Fisher e al suo limbo di indolenza c’è Berlino senza colori, trepida e dolente, ritratta attraverso scorci anonimi: la fermata della metro, l’angolo di una casa, un incrocio con semaforo. Un film interlocutorio, profondo sotto la levità, che mi ha ricordato la filosofica rilassatezza di “Smoke” e che mi ha fatto ripensare con nostalgia a quei momenti nei quali si ha la vaga e colpevole sensazione di non stare combinando nulla.
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