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Oh Boy - Un caffè a Berlino

Regia di Jan Ole Gerster vedi scheda film

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La recensione su Oh Boy - Un caffè a Berlino

di alan smithee
6 stelle

In una Berlino in bianco e nero, sonnolenta e sottotono ma pur sempre seducente, resa leggiadra e vivacizzata da un sottofondo jazz che sembra uscito da una pellicola di Woody Allen, “Oh boy” altro non è se non un diario di una giornata come tante, vissuta dal risveglio sino all’alba successiva da parte di un indolente venticinquenne: un ragazzetto magro e apparentemente "a modino", visetto d’angelo stropicciato, ripreso sin dal mattino nel momento in cui si sveglia, o meglio viene svegliato nel letto dalla sua compagna, con la quale (si intuisce) condivide una relazione che definirla svogliata significa essere oltre modo ottimisti. Lasciatisi un po’ freddamente causa indisponenza latente del ragazzo, indeciso pure nel manifestare un affetto di coppia che forse è il minimo che si possa pretendere da un partner, il protagonista lascia l’appartamento della ragazza per raggiungere il suo, ancora vuoto e da arredare. Dopo aver familiarizzato con un vicino bizzarro che si apre sin troppo presto a confidenze intime sin troppo premature tenuto conto del loro approccio appena avvenuto, in seguito il ragazzo si muove alla ricerca (vana ma per nulla assurda, tenuto conto che mi e' capitata quasi la stessa cosa a Parigi poco tempo fa) di un caffè. Ma anche e soprattutto di un significato da dare ad un’esistenza che si trascina senza più alcuno stimolo o passione. L’occasione per il regista tedesco esordiente e fortunato (per il buon successo riscosso dal film in patria) Jan Ole Gerster è quella di mantenere tutta la materia, che spesso incapperebbe in tematiche se non serie almeno dai risvolti ideali per riflessioni a sfondo etico/sociale, sui toni ironici e quasi sognanti della commedia surreale e degli equivoci: uno stile che è la vera formula vincente di un’operina furba baciata , come dicevamo poco sopra, dal successo, e che sa  come prendere ed accattivare lo spettatore, complice un protagonista ironicamente piacevole nella sua irresistibile fissità rassegnata in un contegno misto tra apatia e rassegnazione. Ecco allora che momenti spassosi con i tempi comici di una gag da cinema muto (le scena dell’elemosina su tutte) si alternano ad episodi frizzanti (lo spettacolo d’avanguardia, tutto versacci, rutti e contorsioni in cui recita l’amica ex obesa ma ancora complessata è esilarante fino alla risata senza freni) in cui l’amarezza di una vita spesa nell’apatia di una sostanziale insoddisfazione verso tutto quanto ci si pone innanzi viene almeno alla fine riscattata da un privilegio: quello di risultare l’ultimo interlocutore in ordine cronologico di quello che superficialmente viene etichettato (anche da tutti noi del pubblico, oltre che dal protagonista) come un ubriacone qualunque, ma che invece nasconde tra le pieghe più intime dei propri ricordi, tra le rughe incavate del proprio viso incolto e trasandato da vecchio che tuttavia non cancellano una inconfondibile signorilità dei tratti e dei modi, la memoria di una drammatica iniziazione paterna ad un eccidio perpetrato ai danni dei commercianti ebrei durante la terribile drammatica “notte degli specchi”, in piena ascesa del regime nazista.

Forse questa confessione intima, a cui fa seguito un mancamento del vecchio che lo porterà a perdere conoscenza definitivamente e ad abbandonare all'alba del nuovo giorno la propria vita terrena, accenderà (forse) la scintilla che potrà dare al nostro confuso ragazzetto un senso più compiuto, un signofocato più preciso ad una esistenza fino a quel momento rimasta effettivamente troppo vuota o irrealizzata.

 

 

 


 

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