Regia di Olivier Dahan vedi scheda film
Qualche anno fa, quando i cosiddetti colonnelli di Alleanza Nazionale, Gasparri e Larussa, portarono il loro leader Fini (ma sembra passato un secolo da allora) a vedere Il mercante di pietre di Martinelli, il segretario ne trasse un'opinione sintetizzabile in due frasi, uscite dalla sua stessa bocca: «è un film di propaganda becera [...] per me quel film è spazzatura».
Ci voleva invece un regista francese per realizzare un vero e compiuto film di destra. Non un film fascista, intendiamoci, ma sicuramente un lungometraggio di destra, di quella destra conservatrice e paternalistica che resta, anche nel nuovo millennio, irrimediabilmente classista.
Lo si nota per la favola (termine che ricorre più volte) della diva del cinema e del principe, per il mito del self made man americano (il padre della protagonista, il quale non compare mai, ma aleggia in sottofondo, con le sue betoniere e le sue palazzine), per la funzione taumaturgica del ballo annuale della Croce Rossa, per l'intervento da deus ex machina della principessa, che sventa ad un tempo il complotto contro Ranieri e la possibile guerra contro la Francia di De Gaulle. Questo conflitto si conclude con la vittoria del piccolo principato sull'arrogante vicino di casa, il quale pretendeva niente meno che la fine della politica monegasca in favore degli evasori fiscali di tutto il mondo, in particolare francesi. La didascalia finale dà conto, con una certa soddisfazione, di questo smacco per il presidente De Gaulle. La principessa taumaturga - anni fa si parlava addirittura della santificazione per sua altezza serenissima - favorisce dunque la vittoria politica di un minipaese, in cui «una legislazione fiscale molto aperta, censurata nel 2000 dall'OCSE e dal governo francese, ha favorito l'afflusso di ingenti capitali stranieri, determinando uno straordinario sviluppo del sistema bancario e finanziario» (DIZIONARIO ENCICLOPEDICO GEOGRAFICO 2008 MONDADORI). Indubbiamente, un grande miracolo, quello celebrato nel film di Dahan, per una principessa americana che a metà anni Cinquanta trovò nei meandri dell'Europa un paese da operetta sull'orlo della bancarotta.
I meriti del film, dunque, come quello di avere rievocato un episodio assai meno noto alle cronache delle gesta erotiche di Caroline, Alberto e Stéphanie, si arrestano di fronte ai dialoghi francamente ridicoli tra moglie e marito, interpretati poco provvidamente dalla troppo eterea Nicole Kidman (la Grace Kelly originale non lo era per niente) e da un Tim Roth che non avrà ancora smesso di domandarsi cosa ci faccia in questo film. E se non se l'è domandato lui, di sicuro se lo domandano gli spettatori.
In ogni caso, Renzo Martinelli prenda nota: per Gasparri, Larussa e Fini è ormai tardi, ma chissà mai che possa arrivare un leader destrorso di bocca cinematografica più buona.
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