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Grace di Monaco

Regia di Olivier Dahan vedi scheda film

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La recensione su Grace di Monaco

di EightAndHalf
6 stelle

Ci si poteva aspettare di più, da Grace di Monaco? No, il genere del biopic parla da solo. Però ci si poteva certamente aspettare di meno, considerando che i sfoggi e gli sfarzi della messa in scena sono, nonostante tutto, coerenti con la vita “favolistica” (si fa per dire) della mitica Grace Kelly, bellezza ultraterrena reinterpretata dalla brava ma stuccata (e rifatta) Nicole Kidman. Intrappolata in un ruolo che lei ha scelto per sé, la principessa Grace ha la necessità di agire in conformità alla sua scelta di abbandonare il cinema per soddisfare il suo principe Ranieri (Tim Roth forzatamente monoespressivo). La tentazione di fare la parte che sarà di Tippi Hedren in Marnie non riuscirà infatti a scrollarle di dosso i doveri e le imposizioni che si addicono a una buona principessa; anzi, scateneranno il putiferio mediatico che contribuì (come alibi) a gettare il malcontento negli abitanti del principato e a chiamare sull’attenti De Gaulle e la Francia, intenzionati ad occupare il principato stesso se quest’ultimo non avesse accettato le sue condizioni. Dopo una prima metà del film, in cui è costretta a lottare con i suoi interessi e la sua voglia di libertà (al punto tale da pensare al divorzio), Grace saprà riadattarsi agli stilemi della vita dopotutto da lei scelta di principessa consorte, intervenendo indirettamente nelle trattative politiche e decidendo, come se non bastasse, di vivere il resto della sua vita in questo sogno indesiderato che la blocca, la umilia psichicamente e le strangola i desideri.

 

Se il suo personaggio è eccessivamente idealizzato, e appare solo di facciata problematico di fronte alle scelte che ha necessità di prendere (l’affetto incondizionato nei confronti dei poveri e dei meno fortunati è dato un po’ per assioma), d’altra parte il mondo stesso in cui finisce per adattarsi è un mondo superficiale, sfacciatamente esteta, ricolmo di una ricchezza e di una lucentezza che (la solita storia) mascherano una critica povertà di fondo. Il personaggio di Grace diventa eroico quando si immerge nella menzogna, e decide di acclimatarsi in un contesto che la porterà, appunto, a credere nelle favole. Ma la frase iniziale del film (“L’idea per cui la mia vita sia una favola è essa stessa una favola”) non si smentisce mai, checché ne dica il suo discorso finale in cui riesce definitivamente a fare l’interesse del marito e a salvare quantomeno l’onore del suo principato. Quantomeno perché, in ogni caso, Monaco cederà alle volontà soverchianti dello stato francese.

 

Il contenzioso interiore che anima il volto di Grace è diretto verso l’annichilimento dei suoi desideri (nobili) verso un adattamento (altrettanto nobile) che vuole, ai fini del messaggio del film, smentire la natura favolistica della vita di corte: di fronte a incomunicabilità, insofferenza e solitudine, nulla fanno la prole o l’affetto (evanescente e a convenienza, in realtà) del marito, è tutto un mondo di immanenza ed eleganza, privo di quella bontà che Grace prodigiosamente porta e ricco invece della natura fallimentare e fittizia del sogno. L’idea stessa che Grace debba rassegnarsi e interpretare una parte, quella della buona moglie e della buona principessa (e soltanto a questo punto il marito potrà dirle “ti amo”), lascia poco all’immaginazione, per quanto riguarda la solitudine e la frustrazione di questa donna (ben espressa dalla sequenza della macchina, in cui con un’estetica da anni ’50 Olivier Dahan riprende la Kidman nervosa che si inerpica ad alta velocità sul promontorio). Solo il ruolo di madre è quello che le si addice anche a livello affettivo: il punto abbastanza coraggioso del film è quello di porre in contrasto, alla fine, il sorriso che lei sente di dover rivolgere al marito dopo il discorso e le mitiche due parole di lui e, invece, il sorriso che lei fa di fronte alla macchina da presa, nell’ultima immagine, nel set di Caccia al ladro o di qualche altro film hitchcockiano. Recitare e fingere non sono azioni che si attuano in una sola modalità.

 

L’aspetto però che salva Grace di Monaco da una certa insipienza e da una storia che straborda nel didascalismo è costituito da certi guizzi che Dahan elabora registicamente per rendere minimamente più simpatetico il personaggio di Grace. Durante le sue confessioni e le sue ansie, il corpo di Grace o è ripreso attraverso uno specchio (e nella pellicola avverrà almeno cinque volte, come ad esibirlo) oppure è ripreso con primi piani vicinissimi al volto, in cui spesso non cogliamo l’espressione intera della donna ma è come se Dahan cercasse di andare oltre il di lei sguardo, oltre l’estetica di principessa, e cercasse di cogliere l’attrice di cinema e, dunque, la donna. Ciò non toglie che l’accompagnamento musicale e i personaggi di contorno non siano altro che burattini nelle mani di un film leggermente ipocrita, a momenti fin troppo idealistico e certamente fin troppo chiuso in se stesso per lasciare la benché minima riflessione a posteriori (il personaggio del sacerdote è irritante, ruffiano e pretestuoso). Però il film si lascia guardare, nel complesso, e oltre l’irritazione c’è una tematica e un pensiero strangolati e soffocati (così come lo è la stessa Grace) da un professionalismo che rischia davvero di uccidere il cinema.

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