Regia di John Lee Hancock vedi scheda film
Mary Poppins è uno dei film più belli degli anni sessanta, forse è uno dei film più belli della nostra vita, è un classico senza fine, la sconfinata fantasia al servizio dell’immortalità, la perfezione (im)possibile, il trionfo dell’immagine e dell’immaginario. La maggior parte di noi altri che l’abbiamo amato non ha letto i romanzi che stanno all’origine di questo assoluto e stratificato capolavoro dello zio Walt. P. L. Travers, insomma, non è che un nome, come J. K. Rowling.
Ora, questo film può essere letto in due modi. Possiamo leggerlo come l’ennesimo prodotto di una certa tendenza del cinema contemporaneo di rievocare la lavorazione di un film d’altri tempi per raccontare un determinato personaggio (Marylin ne Il principe e la ballerina, Hitchcock e la lavorazione di Psycho, Hitchcock e Gli uccelli di The Girl), ma anche di isolare un momento focale dell’esistenza di un certo personaggio per alludere ad un ritratto più ampio (The Queen, Il discorso del re, A Royal Weekend). E allora non possiamo che notare pregi e difetti dell’operazione: ottima ricostruzione nella parte degli anni sessanta tra Disneyland e gli studios, convenzionale e un po’ scontata quella australiana che racconta la drammatica infanzia dell’autrice, un po’ di prevedibilità nella struttura narrativa ciclica, qua e là delle carenze d’equilibrio nell’omogeneizzare le due parti del racconto. E d’accordo.
Però potremmo leggerlo anche nel modo più banale e sincero possibile e cioè sul piano delle emozioni. Saving Mr. Banks non sarà un capolavoro, ma è un grandissimo film. Perché, molto semplicemente, emoziona, fa emozionare, si emoziona. Ha un ben dire chi sostiene che il modo più ovvio per commuovere il pubblico sia inquadrare i personaggi che piangono, ma ci sono lacrime e lacrime. L’aurea di mistero che avvolgeva la storia della signora Travers contribuisce alla partecipazione dello spettatore colto nello stupore, specie se si pone in relazione con l’apparente frivolezza della storia della tata arrivata col vento dall’est. Per questo il pathos è suscitato con sincerità: in fondo, è la tardiva presa di coscienza di una donna (sessantenne) che deve liberarsi di un fantasma larger than life, trasfigurato attraverso l’invenzione di un personaggio ispirato ad una zia, e che ci riesce grazie alla conoscenza di un mondo tanto disprezzato (gli Stati Uniti, il capitalista Disney, i superficiali musicisti Sherman) quanto necessario (la bellezza del panorama “sempre nuovo”, l’ammirevole self-made-man Walt, i geni musicali Sherman).
Una storia di ossessioni alla cui origine vi sono padri troppo amati, una necessaria terapia dell’espiazione condotta quasi in un territorio onirico (“Topolino è la mia famiglia”; “Mary Poppins è la mia famiglia”), uno scontro di mentalità e di personalità che hanno reagito in maniera apparentemente diversa (l’una nella chiusura, l’altro nell’apertura) ma in realtà analoga (la fantasia). Bastino due sequenze memorabili: la cinica e dolente Pamela che si lascia travolgere dalla canzone dell’aquilone e il galà della prima cinematografica. Un grande film, insomma, un po’ commedia e un po’ drammone, sorretto dalle due maestose performance di una memorabile Emma Thompson e di un ammaliante Tom Hanks, scandalosamente dimenticati dall’Academy.
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