Regia di Garry Marshall vedi scheda film
In fondo siamo uguali: ognuno di noi due fotte gli altri per soldi.
Quando a Garry Marshall viene affidata la regia di Pretty Woman, quest'ultimo vanta già una quantità di lavori televisivi di impatto sul grande pubblico: dalla produzione e sceneggiatura di Happy Days e vari spin-off al rifacimento sviluppato in 6 episodi de La strana Coppia di Neil Simon. Aveva portato poi negli anni '80 sul grande schermo alcune commedie con attori, oggi celeberrimi, allora in erba: Matt Dillon in Flamingo Kid e Tom Hanks in Niente in comune.
Le corde artistiche di Marshall hanno sempre vibrato soprattutto nel toccare i toni romantici della passione e del sentimento; ecco perché immagino il suo raccapriccio alla lettura dello script originale di Pretty Woman.
La prima versione (di J F Layton) infatti era di fatto un racconto tenebroso e di denuncia sul mondo del sesso a pagamento a Los Angeles, con una giovanissima protagonista che si prostituiva, aveva problemi di tossico-dipendenza e, incontrato per caso o per gioco un fascinoso e cinico milionario, si mette al suo servizio (sessuale e non solo) impegnandosi a stare per una settimana senza assumere cocaina. E la storia finisce che il milionario la scarica in tutta fretta dalla sua limousine e l'unica ricompensa che la ragazza si merita è salire con la sua compagna di appartamento nel bus che le porta a Disneyland.
Un po' diverso dalla fiaba che invece è scaturita dalle correzioni di Marshall alla fine, no?
Perché il viraggio è stato proprio questo: rendere la storia di Vivian e Edward una delle fiabe che si possono tranquillamente raccontare ai bambini prima di addormentarsi (giustamente ricordata in Shreck 2 come una "brutta" fiaba perché SENZA orchi). Film paraculo, citazionista, rassicurante: ne possiamo trovare tante di definizioni con una qualche valenza "negativa".
Eppure bisogna riconoscere che quando un film appassiona una così vasta platea di persone e nel corso di ormai 3 decenni (alla 20.ma replica in RAI è ancora capace di fare il 20% di share, solo un po' meno di Sanremo e della Nazionale di calcio), vuol dire che è diventato un archetipo dell'immaginazione collettiva.
Marshall ha saputo reinventare un genere, rivitalizzando scene già viste in altre opere e ricontestualizzandole oltre che arricchendole di emozioni. Non è un caso che sia il film che ha lanciato Julia Roberts, l'attrice col sorriso che conquista, ma non solo, perché qui sa mostrare tutto un campionario di espressività che le potrebbero permettere di recitare senza parlare (esemplificativa la scena di quando va all'opera a vedere La Traviata). E dire che non doveva essere la Roberts la protagonista (considerata troppo acerba) e che la prima scelta era stata Karen Allen; e poi, davanti al suo rifiuto, erano state valutate diverse altre opzioni con in cima Meg Ryan e poi piano piano fino a Michelle Pfeiffer. Perfino Valeria Golino era stata proposta prima della Roberts, ma lei declinò perché a quel tempo parlava inglese con un accento italiano troppo spiccato. E chissà che altro film avremmo visto con gli interpreti cambiati (al posto di Gere la produzione aveva pensato inizialmente a Christopher Reeve, Kevin Kline, Al Pacino e Burt Reynolds, ma tutti per un motivo o per l'altro si fecero da parte)...
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