Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film
Sergio, è l’ alter ego dell’autore, una voce narrante che fa da filtro alla miseria materiale e morale che lo circonda, restituendo la leggerezza e l’innocenza della gioventù alla putrefazione di un mondo picaresco, caleidoscopico, in più di una scena anticipatore di tante ambientazioni felliniane.
Un film nato da un romanzo va necessariamente guardato con lo sguardo rivolto all’opera letteraria di riferimento, e per valutare le capacità autonome dell’autore nell’uso di un linguaggio altro e per verificare quanto dello spirito del testo abbia saputo tradurre senza tradirlo.
E’ accaduto infatti di essere tradito a L’odore del sangue, sempre di Goffredo Parise, un romanzo molto problematico per tanti aspetti, dalla stesura sofferta ai riferimenti biografici, che nel film di Martone si sono inesorabilmente persi e il film è diventato molto altro dal libro e con esito piuttosto discutibile.
Mazzacurati, alla sua seconda prova di regia nell’ ’89, (Parise era morto da tre anni) compie un lavoro meritevole sotto molti aspetti su un romanzo che, da Age e Scarpelli a Bolognini, aveva già suggerito scritture cinematografiche, rimaste però solo sulla carta.
Sarà la “venetità” comune ai due autori (così Parise definiva l’appartenenza al suo “Veneto barbaro di muschi e nebbie”) ma ricostruzione ambientale e caratterizzazione dei personaggi non tradiscono il libro, anzi diventa intrigante esercizio il confronto con l’immagine mentale che durante la lettura sempre ci costruiamo e a cui ci affezioniamo.
Buone sia la sceneggiatura che la recitazione, colori, costumi e ambienti collaborano a fare del Prete bello cinematografico una trasposizione dignitosa di un egregio materiale letterario, e il merito maggiore è sollecitarne la (ri)lettura.
Scriveva allora Parise, ricordando il suo folgorante esordio letterario, a soli venticinque anni, nella Milano del ‘54:
“Volevo scrivere un romanzo che mi tenesse compagnia durante l'inverno milanese, che mi divertisse, che mi commuovesse quel tanto da cacciare il freddo e la solitudine: un romanzo con molti personaggi allegri e sopra ogni altra cosa un romanzo estivo che mi facesse un poco caldo”.
Ambientato nella provincia veneta durante gli anni del fascismo, nel libro non c’è però molto caldo, ma piuttosto un calor freddo che si sprigiona dalle movimentate vicende, private e cittadine, ruotanti intorno al "prete bello", Don Gastone Caoduro, alto, giovane, elegante, oggetto di attenzioni e pulsioni mistico-sessuali, ammantate di perbenismo tipicamente provinciale.
Il romanzo è percorso da quella che Emilio Cecchi definì sul Corriere della Sera: ”Una vena di angosciosa poesia, un dono verbale agile e impetuoso”.
Personaggi e luoghi, scrive in prefazione Parise:”… sono frutto dell’immaginazione di un ragazzo di strada. Qualunque riferimento alla realtà è puramente casuale”.
Ma quel ragazzo di strada, Sergio, è l’ alter ego dell’autore, una voce narrante che fa da filtro alla miseria materiale e morale che lo circonda, restituendo la leggerezza e l’innocenza della gioventù alla putrefazione di un mondo picaresco, caleidoscopico, in più di una scena anticipatore di tante ambientazioni felliniane.
Nella Vicenza del ’39 Sergio e Cena sono ragazzini proletari e vivono in un piccolo mondo, il cortile di un antico caseggiato decaduto ad abitazioni popolari, dove s’intrecciano storie di ordinaria quotidianità su cui la grande storia getta il suo riflesso.
Intorno a loro, veri protagonisti del film, che tende a mettere Don Gastone in minor evidenza rispetto al libro, ruota un microcosmo fatto di bigotte innamorate del “prete bello”, “con la sua maglieria intima finissima e le calze di organzino di seta...”, avventurieri che vivono alla giornata di espedienti, anziani in disarmo e, soprattutto, Fedora, il raggio di sole, la prostituta veneziana che porta notevoli scombussolamenti e deviazioni nell’ordine delle cose per via della relazione che intreccia col prete.
La leggerezza della scrittura di Parise si mantiene intatta nel film, Sergio e Cena, con le loro scorribande in bicicletta e la vita nell’oratorio, vivono un’infanzia incurante di miseria e ristrettezze in un libero e inconsapevole trascorrere dei giorni.
Si avverte però, costante, il loro essere sulla soglia di un’uscita dolorosa da quel mondo.
Mentre scorrono immagini di una Vicenza provinciale e guardinga, inquieta e perbenista, “una città di pietra grigiastra dalle colonne spropositate, che in molti punti sembra finta, fatta di magnifiche quinte teatrali… in questo teatro ho ambientato cinque miei romanzi - scriveva Parise - senza mai far riconoscere direttamente la città perché appunto la vedevo e la ricordo come un teatro in cui si può cambiare commedia ma non scenografia…” la storia comincia a trasformarsi in dramma, dapprima in modo impalpabile, sfuggente, poi sempre più precipitoso.
La dolorosa avventura di Cena e la voce fuori campo di Sergio sono quel che più resta nel ricordo, dopo la visione del film, ma soprattutto invita a rileggere la stupenda, ultima pagina del romanzo:
“Cena, piangendo, guardava fuori dalle vetrate con i suoi grandi occhi innocenti dove non c’era furto, né coltello che aveva ucciso, né ladrocinio, né incoscienza, né criminalità.
Guardava quel rosa granatina, che era ormai una striscia, perdersi in un lungo filo d’orizzonte che comprendeva i campi, il canale con le anguille e le carpe, il cimitero degli ebrei dove sotto una vecchia lapide abbandonata c’era stato uno dei nostri nascondigli.
Guardava tutto questo e nei suoi occhi a un certo momento apparve una Legnano da corsa nuova fiammante; guardava e pregava per avere una vita migliore in questo mondo e in mezzo agli uomini più grandi e più fortunati di lui e proprio mentre stava passando in rassegna tutte queste cose sulla sua nuova bicicletta, questa si alzò, e Cena, rifiuto di riformatorio, ladro e miserabile a dodici anni, abbandonò con essa le strade di questa terra.”
www.paoladigiuseppe.it
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