Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
Non è la prima commedia fantastica che Rubini dirige e, in un piccolo ruolo, interpreta: L’anima gemella condivideva con questo film l’estro irreale, lo scambio di corpi e la presenza di Valentina Cervi. Tornato a scrivere con Umberto Marino, insieme al quale iniziò a fare cinema con La stazione, uno degli autori-attori meno etichettabili del cinema italiano (tra i pochi a fare film che si somigliano poco tra di loro, come i migliori registi quando il cinema era più grande di adesso) sfida la dittatura commerciale della commedia con uno spartito surreale e spericolato. Suicida per fallimento finanziario ed esistenziale, a Lillo viene data la chance di tornare in vita per fare del bene, con il corpo di Solfrizzi. Ci riuscirà nonostante il suo intento sia vendicarsi dell’eterno rivale Marcorè. Il disegno moralista, tipico dell’apologo fantastico, è il pretesto per una sciarada che ricorda più le screwball comedy degli anni 30 e 40 che la nostra satira di costume. E se dopo un attacco scoppiettante il film si affida a ripetizioni un po’ infantili, il piacere con cui un manipolo di professionisti (dalla Buy a Marcorè, da Iacchetti a GianMarco Tognazzi) si abbandona a un festival di equivoci, finzioni e specchi magici, ricorda il lavoro di squadra con il quale i migliori comici del dopoguerra si cimentavano nei più insensati film di Totò. Da segnalare, nell’opera di un attore che ha il cognome del protagonista di La dolce vita e che Fellini volle nei panni di se stesso in L’intervista, un aldilà a metà tra il grand hotel e un bordello che avrebbe garantito a Rubini una pacca sulle spalle dal regista di Amarcord.
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