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Shell

Regia di Scott Graham vedi scheda film

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La recensione su Shell

di OGM
8 stelle

Come ti chiami? Mi chiamo Shell. Come la pompa di benzina? No, come la conchiglia, quella cosa unica e bellissima che si trova nel mare. La rarità è solitudine. Lo splendore assorto delle Highlands scozzesi è l’immagine di una desolazione misteriosamente seducente, in cui, per un attimo, la disperazione sa farsi calore, proponendosi come una compagna ideale. Sarà per questo, che tutti gli uomini di passaggio si innamorano di lei: una diciassettenne che abita col padre in una stazione di servizio, una casupola in mezzo al nulla, dove si accatastano le automobili da rottamare, i cervi vengono in cerca di cibo, ed i mobili tremano e tintinnano, ad ogni passaggio di un mezzo pesante. Un posto da camionisti, rude e noioso, privo di poesia, almeno in apparenza. La magia è racchiusa in quel che non si vede, non si dice, si nasconde al mondo come un bene prezioso. Ciò che mantiene l’anima in vita sono i suoi segreti:  non importa se meravigliosi o terribili, purché siano tali da appartenere ad uno sola persona, tali da poterne essere gelosi. È questo l’intrigante privilegio di chi vive in disparte, laddove i desideri si coprono di irraggiungibilità, oppure si ammantano di una sublime clandestinità. Possedere Shell è un sogno che si diverte a giocare con la propria natura ambigua, mostrandosi ora buono e giusto e a portata di mano, ora sbagliato, perverso e severamente proibito.  Il film di Scott Graham è un pensiero soavemente altalenante fra l’inerte innocenza della normalità e il violento trasporto della trasgressione, che approfitta dell’isolamento, eppure un po’ se ne dispiace. Non c’è gusto infatti, se, con le proprie passioni, non si può mai uscire alla luce del sole. È disumano dover restare sepolti ed anonimi, per forza e non per scelta, senza mai essere messi in condizione di provare il proprio coraggio, di mostrarsi per quello che si è, di sfidare i pregiudizi della gente. Il peccato intristisce e langue, se viene condannato a restare nell’ombra, dove non esistono limiti esterni da superare, ma solo il blocco che nasce dalla paura che tutto sia vano, che il bene e il male siano ugualmente destinati a passare inosservati. Pete non sa dare un nome al sentimento che prova per sua figlia Shell. Sarebbe tutto più chiaro se qualcuno guardasse, e potesse dire la sua. Invece, in quell’universo emarginato e senza legge, l’unica differenza è tra esserci e non esserci, tra caldo e freddo, tra fame e sazietà, come nel monotono alternarsi delle stagioni, delle condizioni ambientali, delle sensazioni fisiche. Il primitivo organismo di un destino cosmico, ridotto ai suoi tratti essenziali, è governato dai rudimentali principi del cercare, del perdere, del trovare. Si caccia e si raccoglie, strada facendo. Stando fermi si rimane invece indietro, e si viene abbandonati.  La fissità è un vortice che sospinge via la realtà in divenire, quella che è ancora in viaggio, quella per cui la casa non è tutto, ma è solo un punto di partenza, una meta a cui ritornare. Intorno a Pete e Shell ruota un’intera umanità che si pone il problema del dove e del quando, che sono categorie perentorie, che decidono il corso dell’esistenza: smarrire la bambola a cui si è affezionati, scegliere male il momento in cui visitare i propri figli, avere un incidente e rimanere con la macchina in panne. Di tutto ciò, Pete e Shell  raccolgono solo le scorie, i frammenti di parentesi che per gli altri si chiudono subito, lasciando loro a mani vuote, ed amaramente estranei al turbinoso volgere del tempo. 

 

scena

Shell (2012): scena

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