Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Le speculazioni in pre-uscita attorno a questo film erano tali da aspettarsi un capolavoro sconvolgente, uno di quei film da una volta ogni mille che ti cambia la vita. O almeno un film d'autore sorprendentemente esplicito, il primo nel suo genere.
Non è né l'una né l'altra cosa. Siamo ben lontani sia dal capolavoro che dalla coinvolgente, pittorica apnea di Melancholia. E Von Trier non si accaparra nemmeno il podio per essere il primo a promuovere un erotismo più spinto da genere di serie B a fenomeno da cinema d'autore. Basti pensare a film come Shortbus di John Cameron Mitchell, di cui nessuno ha chiacchierato sui social. Tanto rumore per nulla o quasi. Sia chiaro, il film è bello, l'analisi della mente umana convincente e profonda, come sempre accade con Von Trier. Ma l'autocelebrazione del regista che ha preceduto l'uscita del film è ingiustificata ed estemporanea.
Forse era proprio questo l'obiettivo, la sua nuova sensazionale arte: "vi ho gabbati tutti!"; ma anche qui arriva tardi, perché di Duchamp il mondo ne ha avuti già tanti prima di lui.
Premesse a parte, veniamo al dunque. Nymphomaniac si apre con la durezza dell'asfalto e la rigidità di mura a mattoni, una donna stesa a terra, contusa e una colonna sonora metal a fungere da terribile collante: l'esordio di una storia cruda, cinica. Dal racconto di una Joe adulta che "minaccia" di inserire una morale nel suo racconto, un'impassibile e fredda Charlotte Gainsbourg, prende forma un depravato romanzo di formazione che parte dalla scoperta infantile della propria sessualità e si addentra sempre con maggior schiavitù in un vortice distruttivo. Von Trier, grande analista di stati mentali alterati, narra con profondità la situazione in cui versa una ninfomane, nonostante non inventi nulla di nuovo: lo stato febricitante di chi riempie il vuoto della vita con dipendenze che non conduranno a nessuna pace; il freudiano complesso di Elettra (forse all'origine di tutto?) che porta la protagonista ad essere affascinata dal padre e a non sopportare la madre; il mito platonico dell'auriga combattuto tra il cavallo nero che lo conduce nel baratro della corporalità e il cavallo bianco che lo innalza alla spiritualità. La Gainsbourg ha scelto uno sconosciuto, Stellan Skarsgard, un uomo bonario che ama i paragoni con la pesca, per raccontare e raccontarsi la sua storia, una sorta di espiazione/punizione con la quale vuole autoinfliggersi il proprio disprezzo per quello che è diventata. La colonna sonora dal metal iniziale si sposta a reminiscenze dell'Eyes Wide Shut di Kubrick fino a Bach, delineando efficacemente la crescente "polifonia" della vita e della sessualità della protagonista, simili ad un'armonia disarmonica in costruzione.
Ma a questo primo, mutilato capitolo manca lo stupore. Forse arriverà nel secondo volume?
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