Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Un Von Trier particolarmente ispirato coglie il meglio del suo bagaglio espressivo e lo articola sino ad esiti particolarmente intriganti. “Nymphomaniac” è una vera e propria pacchia per chi, dal cinema degli anni ‘10, pretende svisceramento dell’immagine, molteplicità di testi e sottotesti, (de)strutturalismo, fertili paradossi, teorie dello sguardo enunciate e contraddette con brio ed intelligenza. Il danese ci aveva provato altre volte, ma erano proprio brio ed intelligenza a fargli difetto: “Idioti”, “Dogville”, “Melancholia” e in parte “Europa” apparivano ingenui e prolissi, schiavi di una tesi da dimostrare (o scardinare), incapaci di governare il marasma di segni e sensi, divorati da un’autorialità che restava bloccata in uno stato larvale. Nei casi migliori, era il carisma della protagonista (la Watson dominante nelle “Onde del destino”) o un senso della sintesi abbinato ad estro visionario (la filosofia spicciola di “Antichrist”) a valorizzare i suoi film. In quest’ultima fatica (almeno nella prima parte, che finora è uscita nelle nostre sale) pare che LVT faccia un deciso passo avanti nella direzione di un cinema finalmente maggiore, che non si limiti a promettere sconquassi emotivi e (soprattutto) formali, ma sappia riempire la pancia dello spettatore più esigente. Con “Nymphomaniac”, Trier si candida forse come il Quentin Tarantino del cinema d’autore: ciò che l’americano, nei vari “Pulp Fiction”, “Kill Bill”, Inglorious Basterds”, ha fatto per il cinema di genere, il danese ha riproposto qui per il cinema esistenzialista di introspezione psicologica ed emotiva. E cioè, non tanto la banale e risaputa commistione di toni all’insegna di un grottesco svuotamento di senso, ma un’operazione più profonda: lo spregiudicato e perverso maltrattamento del testo filmico, per ricavarne letture fra le più disparate. Se infatti N()M si presta, di primo acchito, ad una chiave di lettura “classicamente” bergmaniana (l’autoanalisi confessionale dell’aridità emotiva di una donna, della sua solitudine, delle sue reminiscenze infantili, attraverso il filtro esasperante di una sessualità patologica), in realtà va ben oltre: allo scandaglio sessuale di Joe da parte di Seligman, si affianca e si sovrappone quello di Trier per l’oggetto-film. Ne risulta un’esperienza psichica spiazzante, che appassiona e al contempo fa cadere le braccia, ma che tiene sempre desto l’interesse attraverso un fuoco di fila di trovate che si infiacchisce solo in alcuni frangenti (la vita in ufficio con Jerome, un po’ giù di ritmo, con pure il rischio sventato di deriva melò) e che talora cade rovinosamente (l’agonia del padre in ospedale, con dovizia di dettagli inutilmente sgradevoli, quasi un auto-omaggio al Trier dogmatico che prendeva gusto a dare “pugni nello stomaco” all’establishment del cinema occidentale). Ma per larghi tratti di film, Trier gira in stato di grazia (come non gli era forse mai capitato) e compone alcune pagine di meta-cinema che arricchiscono ed oltrepassano anche certe consuetudini del post-moderno: in N()M la forma prediletta non è tanto il “film nel film”, quanto il “film attraverso il film” o il “film sopra il film”. In episodi particolarmente brillanti come quello dell’adescamento sul treno o quello della (straordinaria, memorabile) Uma Thurman, moglie e madre distrutta e abbandonata, la convivenza di farsesco e tragico, innocuo e doloroso, sincero ed artefatto, buffo e aberrante, moralista ed estraniato, è tale per cui si ha come l’impressione di vedere più film contemporaneamente, uno sopra l’altro (o uno attraverso l’altro): ma non perché la regia sia cinica ed ambigua (come in tanto cinema contemporaneo), ma perché è lo statuto stesso di ciò che vediamo rappresentato sullo schermo che ci costringe a prendere atto della simultaneità di significati e di sensazioni. L’ironia diventa quindi una necessità, non uno stratagemma estetico; il grottesco non è tanto una lente per deformare la realtà, ma è la pura natura delle cose (e delle immagini). N()M riprende e complica (e forse ribalta) lo schema uomo-donna / ragione-istinto, che in “Antichrist” veniva esposto in modo efficace, ma elementare. Qui la faccenda si fa più cerebrale: da dove vengono le immagini che vediamo? Di chi è la storia che viene raccontata? Sono fantasie (esasperanti il vissuto reale) di Joe? Oppure fantasie (esasperanti una idea, tipicamente maschile, di donna-ninfa) di Seligman? C’è un dettaglio rivelatore (forse): il momento in cui vediamo Joe insegnare la geografia toccandosi nelle parti intime e Seligman confessare che si trattava della sua immaginazione. Sotto certi aspetti, sorprendentemente, questo film parla di noi, dell’oggi, di cosa significhi “pensare il sesso” nel 2014, nell’era delle baby prostitute, del porno ovunque, dell’ossessione erotica esperita fino alla nausea, svuotata di passione. Trier, specie nella prima ora, pare affrontare la questione, facendo passare in sordina (con una finezza per lui inconsueta) una critica sconsolata e impietosa non tanto ai comportamenti di uomini e donne, quanto al modo stesso di intendere il sesso oggi. D’altra parte, N()M è un film mentale, immaginifico, un saggio per immagini che si viene a formare dall’interazione, caotica ma (fnalmente, Lars!) non confusionaria, di due menti, quella fallocentrica di Seligman e quella vulvocentrica di Joe. Non c’è solo, come in altri film di Trier, l’uomo che “razionalizza” le pulsioni della donna. Infatti, la stessa Joe tende ad analizzare la sua vita col filtro della matematica o della musica (che è matematica dei suoni, almeno quella di Bach!): la “polifonia” di amanti richiama le tassonomie di Greenaway (così come anche i frequenti riferimenti alla numerologia, alla botanica e ad altre scienze o pseudo-scienze) e rappresenta forse la vera scena-madre di questo film per come fa coincidere il serio al giocoso, l’analisi alla sensazione. Quindi non c’è solo l’uomo che analizza (e sfrutta) la donna, ma anche la donna che analizza (e sfrutta) l’uomo. Dalla triplice scissione della figura maschile postulata da Joe, nasce una musica sublime come quella di Bach: ma quando il nastro si ferma, Joe non “sente” più niente (chissà in originale come viene tradotto quel “sente”, se con “feel” o con “hear”?)…era dunque, ciò che sentiva, frutto di una mera illusione? Del resto è stato Selingman a fornire gli strumenti interpretativi per i racconti (quanto inventati?) di Joe: la tattica per la pesca, la sequenza di Fibonacci, la musica di Bach…Quindi quei numeri, quei teoremi che vediamo in sovraimpressione da che mente vengono? Da Joe o da Selingman? Chi conduce il gioco? Nell’affrontare un testo così “interattivo”, così stratificato, così “work-in-progress”, dove oggetto e soggetto si danno il cambio ripetutamente fino ad intersecarsi in un anello di Moebius, dove persino un banale croissant servito con forchetta può alimentare il racconto, allo spettatore ammaliato e basito non resta che una sola cosa: la Fede nelle immagini, nell’illusione, nel cinema.
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