Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Dopo Antichrist, furente e ferina autoanalisi a cuore aperto, dopo Melancholia, sci-fi da camera sul proprio intimo e imploso sentimento d’apocalisse, Lars Von Trier chiude la trilogia sulla sua depressione con Nymph()maniac (distribuito in due volumi non director’s cut, tagliati dal produttore e infine - per amor d’assurdo - certificati dal regista). Nei capitoli precedenti (un dittico che è parodia e sfregio del freudiano Lutto e melanconia) il cinema digitale era il luogo in cui esprimere e spremere i propri fantasmi autobiografici. Come successe con l’INLAND EMPIRE di Lynch, con il Twixt di Coppola, con La fille de nulle part di Brisseau. Un medium in cui vomitare il proprio male in forme espressioniste e sfacciate, costantemente fuori dal fascismo del buon senso, scomposte, ridicole, dissolute. Cinema solipsistico. Come sfogo, come cura. E che qui, in Nymph()maniac, si interroga su questa pratica impudica e indecente. «L’osceno è la fine di ogni scena» sosteneva Baudrillard. «Se tutto il segreto è restituito al visibile, e più che al visibile, all’evidenza oscena allora il cielo diventa indifferente alla terra». E cosa c’è di più osceno dello spettacolo del proprio dolore? Cosa di più pornografico?
Joe (Charlotte Gainsbourg) è una ninfomane. E racconta il proprio dramma personale, le proprie storie sessuali, a Seligman (Stellan Skarsgård), colto europeo. Una donna malata di sesso, ma impossibilitata al godimento, che narra. Un uomo docile, che ascolta. E interpreta. Dopo il Lei e il Lui di Antichrist, dopo le due sorelle opposte di Melancholia, Von?Trier mette in scena ancora due archetipi. E fa del film un altro dialogo a due, il dibattere schematico tra inconscio e ragione, corpo e intelletto. Ma anche, soprattutto, tra artista e pubblico. Perché come i suoi primi tre - L’elemento del crimine, Epidemic, Europa - Nymph()maniac è un film sull’arte del racconto. Non solo il catalogo di una disperata e picaresca educazione sentimentale, una sitcom immorale, il resoconto farsesco e macabro di una dipendenza, un’enciclopedia etologica sul sesso degli umani. Joe è la Sherazad di Le mille e una notte. E il Keyser Söze di I soliti sospetti. Il secondo volume specifica la questione: Nymph()maniac è un film sul cinema.
Sì è un film sul cinema, Nymph()maniac, perché quel che mette in scena è la ricerca di un racconto, di una storia che sia compromesso tra l’intima necessità d’espressione dell’autore e i bisogni del suo pubblico. E se Truffaut sosteneva che «tutti hanno due mestieri, il proprio e quello di critico cinematografico», oggi, nell’epoca dell’opinionismo di massa e del chiacchiericcio sine nobilitate, è allo spettatore specializzato dell’art film, al cinefilo da blog e discussione su social, al critico espanso che Von Trier rivolge il suo film. Al suo pubblico colto. A Seligman. Che vuole conoscere la storia di Joe perché vuole comprendenderla, godere nell’interpretarla, decostruirla con i propri strumenti analitici, e poi ricostruirla secondo il vangelo dei propri schemi culturali. Essere protagonista, nel proprio essere spettatore, nel ridurre l’opera di Von Trier - e il corpo sfiancato di Joe - al proprio discorso. E dunque, a questo pubblico, Von Trier e Joe regalano quel che s’aspetta, quel che titilla il suo desiderio. I racconti (im)morali della protagonista nascono dai feticci di Seligman, dagli interessi personali che gli oggetti nella camera manifestano. Da sigle, icone, macchie. I capitoli sciorinano segni banalmente interpretabili, simmetrie da decrittare, accostamenti arditi e parodici, un florilegio d’intellettualismi, filtri emotivi da entomologi e sociologi. Sfacciati auto-omaggi (Antichrist, Melancholia) per lasciar rivendicare il lavoro in corso d’Autore, frecciate a Cannes in forma d’aforisma, ammicchi a film e maestri per la gioia della cinefilia enigmistica (L’adolescente, La pianista, Paradies Liebe, Bergman, Pasolini, Tarkovskij...), per non dire della campagna promozionale, prima esca per il vociare delle opinioni.
Joe (un’altra Her) in fondo è un nome maschile, come il suo interlocutore. E quindi la questione, in queste storie su misura di chi ascolta, è quanto rimanga del confessionale del regista. E quanto rimanga di Joe. Quanto sia possibile un racconto autobiografico, libero e taumaturgico, fisico, in un mondo sempre al secondo grado, ridotto a retorica, a linguaggio. A mercato. È questa la tragedia di Nymph()maniac, scavo nel compromesso da cui nascono le immagini, satira a cuore aperto, atto di resa, sfregio a un pubblico che - vedi finale - non s’accontenta di una storia.
Quanto si può essere puri se quel che conta è soddisfare il pregiudizio nell’occhio di chi guarda?
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