Regia di Lars von Trier vedi scheda film
«Come pensa di tirar fuori un senso dal mio racconto: credendoci o non credendoci?»
[Joe a Seligman]
No, al racconto non si crede. O forse sì. Ma non importa. LvT - il subdolo, il borioso, il detestatissimo provoca(t)tore - ancora una volta, affascina, circuisce, manipola, mente, sta otto passi avanti. Usa e sfrutta [la stoltezza dei miser(evol)i media piegati (ad angolo retto) alla continua caccia di eroi e nemici, e sensazionalismi; gli spettatori, adoratori del verbo vontrieriano o contestatori senza se e senza ma].
Cos'è Nymph()maniac (volume I)? È la storia di una ninfomane sola e disperata, è un'indagine sulle dipendenze (sessuali in primis), è una confessione a cuore - rivelatore di misfatti (i propri) - aperto e coperto dagli spasmi esistenziali. Non solo, naturalmente.
PIù elementi per formare una - colta, elaborata, (tras)lucida - polifonia concettuale, la seduta psicoanalitica di Lars medesimo: lunga, orizzontale, spezzata in due (poiché ogni cosa è doppia). Pura masturbazione mentale tradotta/introdotta brutalmente nel sinuoso corpo filmico.
L'inizio. Oscurità, rumori di fondo, il ticchettio di umori familiari - sintomi e simboli del paesaggio. Urbano prima, carnale dopo, come si vedrà. Dalla strada un uomo scorge, in uno spazio seminascosto, una donna distesa per terra, forse ferita, senz'altro bisognosa d'aiuto. Giusto un attimo di esitazione, poi si avvia verso di lei. Per raggiungerla deve abbandonare la via principale e percorrere una viuzza. Breve scambio di parole, mani che si toccano, l'uno che aiuta l'altra a rialzarsi [e violente giungono dal profondo le fredde dure note metalliche dei Rammstein, con Führe mich : "Guidami, stringimi. Ti sento, non ti lascio"].
Ovvero, una penetrazione negli anfratti cerebrali del "pessimo essere umano" (superba, "inattaccabile" autodefinizione).
Due personaggi in scena. Un dialogo/gioco dei ruoli (conscio e inconscio, verità e menzogne, intelletto e irrazionalità, protervia e fragilità, erudizione e rozzezza, ardore e paure) che comincia in sordina, e prosegue in un clima mutevole - malgrado la "staticità" apparente - come lo possono essere gli stati d'animo.
Un "dialogo interiore" tra sé e sé; ove, di volta in volta, ogni posizione/idea/dichiarazione di una delle parti è - può (non) essere - il punto di vista dell'autore, e quelle che vi si oppongono/interrogano/scrutano il perfetto controcanto teorico del pensiero del demiurgo medesimo.
Discorso che assume un registro multiforme: è «una storia che avrà una morale», un'allegoria potente della disperazione dell'uomo moderno, depresso e ineluttabilmente destinato all'autodistruzione, un motivetto grottesco e tragico, un romanzo "sporco" di (de)formazione e alienazione, un concentrato di pessimismo uman(istic)o e universale, e un eloquente, machiavellico (super)egoistico esercizio di strategia (attacco, difesa, dileggio, guerra, arte) su una complessa personalità.
La ninfomania del titolo - con tutta la pubblicità "scandalistica" più o meno voluta che ne è derivata - potrebbe non essere altro che il grimaldello (l'ennesimo) della provocazione con il quale il "despota" danese sf(r)onda le porte dell'ottuso sentire comune, del perbenismo imperante, delle rigide convenzioni fini a se stesse. Potrebbe, può darsi, è una possibilità: sta di fatto che l'arma che Lars von Trier brandisce - con suo sommo perverso piacere - è quella dell'(alta) arte filmica, quella che sconvolge e crea (dibattiti e contrapposizioni a non finire) e distrugge. E gioca.
Suddiviso (cervelloticamente) in capitoli, l'enunciato/artificio vontrieriano percorre sentieri "canonici", laddove con ciò si può intendere il tessuto narrativo che riguarda Joe, intrecciato con flashback e racconto in prima persona. I suoi ricordi, il suo vissuto, e i traumi e le buffe avventure, le figure che hanno avuto (recitato) un ruolo nella sua vita, ed ora il confronto con una personalità agli antipodi: violenza e dolcezza compongono un viaggio introspettivo d'intensità devastante, la cui ambivalenza - o meglio, polivalenza - permette la comunicazione diretta con il pubblico che, colpito - in un senso o nell'altro - risponde.
Ma come avviene - e giunge a noi - questo viaggio, questa discesa analitica negli abissi interiori di chi mostra, fieramente - e, probabilmente, mentendo - insensibilità e pretendendo assoluta mancanza di empatia? Attraverso una serie - pensante, sfrenata, (mal)educata - di riferimenti, metafore, citazioni.
Così la messa in scena - sontuosa nel suo offrirsi nuda, spoglia, casta, greve, malata - rispecchia e amplifica l'universo psicologico di Joe, di cui ne indaga pulsioni e accoglie gli istinti primari (sessuali, egotici, finzionali), colpendo l'intero arco sensoriale con strumenti che attengono al pensiero e alla conoscenza.
Una "foresta di simboli". Imponente, torbida, accerchiante.
Il capitolo più lugubre, drammatico, coinvolgente (Delirium) - quello dedicato al padre di Joe, ad un'altra dipendenza - vive in un bianco e nero che inghiotte il respiro e insudicia l'anima. Joe si avvia nell'ospedale in cui è ricoverato il genitore ed una voce fuori campo declama l'incipit tetro de La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe. Non è l'unico riferimento al grande scrittore e poeta americano, giacché il personaggio stesso di Seligman asserisce di stare "ri-familiarizzando" con l'opera omnia di EAP, e le sue parole sono inframmezzate dalle celebri eloquenti illustrazioni di Harry Clarke.
Non mere suggestioni o sterili sfoggi, dunque, bensì un uso sapiente e consapevole, armonico, di fonti assolute da cui attingere per potervi immergere un'idea compiuta, un discorso capace di avvolgere la banale materia filmica dandole nuova luce. E nuove ombre.
Impulsi ossessivi (la numerologia, la successione di Fibonacci, i ricorrenti numeri 3 e 5), innesti compulsivi (le considerazioni sulla religione ed in particolare sul concetto di peccato), commenti incalzanti (Bach, l'intervallo del diavolo), letture retoriche e globali (l'insistente paragone con l'arte della pesca, la passione paterna ereditata per la natura - il bosco nel parco - e la unicità del frassino): LvT, incantando (depistando) lo spettatore mostrandogli un immaginario "basso" (che gli appartiene) e riconoscibile, riflette sulla natura dell'uomo e del mezzo cinematografico.
E riflettere fa la chiusura, ancora spiazzante, in attesa della seconda definitiva e necessaria parte.
«Non riesco a sentire niente».
Dissolvenza. Nero.
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