Regia di Sinisa Dragin vedi scheda film
Nel Vangelo di Giovanni è scritto: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto.” Per Sinisa Dragin, il seme destinato a perire sono i figli dei Balcani. Come Milan, il ragazzo serbo scappato in Romania per non dover imbracciare le armi, e poi morto in un incidente d’auto. E come Ina, la giovane romena partita dalla campagna per studiare lingue nella capitale, e poi finita a fare la prostituta in Kosovo. Jorgovan e Nicu sono i nomi dei loro padri, che attraversano clandestinamente il Danubio, in direzioni opposte, per andarli a prendere, e riportarli a casa. Quel fiume segna il confine tra due mondi, e per qualcuno coincide con il punto di passaggio verso la libertà: così è per Nora, fuggita dalla casa paterna per cercare, sull’altra sponda, un’esistenza senza regole, all’insegna del denaro facile e della trasgressione. Anche a lei toccherà, suo malgrado, tornare indietro, per poi fuggire ancora. Secondo la parabola evangelica, la fine è il principio da cui nasce nuova vita. Ma prima di incontrare il suolo in cui trovare finalmente pace, il germe deve viaggiare a lungo, senza mai vedere la meta. Il vecchio Hans racconta una leggenda, risalente al 1778. Gli abitanti di un villaggio della Transilvania, allora appartenente all’Impero Austro-Ungarico, non potendo, in base ad un editto asburgico, costruire una chiesa ortodossa, ne comprarono una già fatta, in un luogo distante una decina di chilometri, e poi iniziarono a trascinarla lentamente verso il loro paese. La traversata fu funestata da varie sventure, e non ebbe l’esito sperato. Di quell’impresa, tanto eroica quanto sfortunata, resta soltanto un fantasma, che a volte emerge dalle acque. È lo spettro di un progetto incompiuto, sostenuto dalla straordinaria forza della fede in un momento storico avverso; il simbolo di ciò che si deve comunque tentare di fare, anche quando le circostanze sono estremamente sfavorevoli. Il risultato sarà inevitabilmente negativo, lasciando tutti a mani vuote; il raccolto ci sarà, ma non sarà dato agli uomini che hanno tenacemente coltivato il terreno. I figli di Jorgovan e Nicu non appartengono più a loro, che li hanno generati e cresciuti: sono cespi staccatisi dalle radici, che hanno prolificato altrove, in una dimensione che non conosce continuità col recente passato. Tito non c’è più, e con lui se ne sono andati anche i sogni di unità e di grandezza: la ex Jugoslavia è una terra devastata, spezzata in mille etnie, in cui ci si perde, e nella quale si può restare soltanto per nascondersi in mezzo ad un caos privo di identità ed intriso di disperazione. Vagare e smarrirsi per sempre è la testimonianza da consegnare ai posteri, come esempio di coraggio ed, allo stesso tempo, come monito contro la disgregazione, la cecità, l’oppressione che discrimina e divide. In una realtà spezzata, la felicità è il traguardo che viene perennemente rinviato, sospinto sempre più lontano dall’impetuosa corrente della guerra, dell’odio, della violenza. Inseguirlo, al di là di ogni ragione, esprime un’incrollabile volontà di crescere, un impulso naturale che non si lascia piegare dal cinismo. Milan e Ina, sino all’ultimo, ci hanno provato, fino a che qualcosa, molto più grande di loro, li ha inesorabilmente fermati. Uno schianto fatale, che ha investito il corpo o l’anima. Ma che non ha impedito, alle loro storie, di venire consacrate a quella religione universale che insistentemente, ed assurdamente, continua, nonostante tutto, a sperare e a mantenere la propria purezza. Il canto dell’apocalisse può essere un suono sporadico e soffuso: un soffio che a tratti affiora dal turbinio delle cose terrene. Un’ombra azzurra avvolta nella nebbia. Un velo bianco che fluttua in mezzo alle onde. La vibrazione di un rintocco inudibile che annuncia la prima ora della sera. In questa storia di migranti, il crepuscolo, l’inverno, la vecchiaia sono i momenti in cui l’atmosfera si fa più quieta, forse rivelatrice, forse apportatrice di salvezza. Il giorno è pieno di chiasso, di dolore, di volgarità. È una commedia caustica o allegra, che però non fa ridere. Per scorgere un silenzioso lembo di verità, bisogna guardare sotto il manto delle nubi, appena sopra l’orizzonte.
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