Regia di Chantal Akerman vedi scheda film
Tre giorni della vita di una donna. Una realtà, una condizione, un modo di vivere.
Sono trascorsi 50 anni, ancora mimose, ancora auguri. E Jeanne è ancora lì, su quella poltrona, a guardare nel vuoto.
Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975): locandina
Il cinema era per lei una forma di vita e di pensiero. C’era una necessità, un’evidenza di travaglio estetico tali che penso a “Jeanne Dielman” o a “d’Est” di cui restano intere sequenze nella memoria. Otteneva il massimo effetto con mezzi minimi, aveva un’idea morale della forma, lontana anni luce da certe gesticolazioni attuali.
Catherine David, direttrice artistica della X edizione di Documenta Kassel
Jeanne Dielman è considerato il capolavoro di Chantal Akerman, forse non è proprio così, il suo cinema è totalizzante, senza graduatorie.
Girato a 25 anni, mette in scena una donna chiusa nel breve perimetro fra appartamento, mercato e bar sotto casa per un caffè, unica trasgressione. La cassetta della posta è sempre vuota ma lei controlla ogni volta, l’ascensore fa lo stesso scricchiolio ogni volta.
Je fais de l’art avec une femme qui fait la vaisselle (faccio arte per mezzo di una donna che lava i piatti)dichiarava la regista.
C’est comme une tragedie antique in risposta a chi le chiedeva perplesso il significato del film.
Perché nella tragedia la catastrofe incombe fin dal prologo, si avverte in ogni scena, in ogni parola, ma cova nell’ombra. Infine esplode, deflagra senza una sponda a trattenerla e trascina con sé tutto ciò che trova. Nella tragedia l’eroe è solo nella sua vulnerabile grandezza.
È un film sullo spazio e il tempo e il modo con il quale lei [[Jeanne n.d.r.] organizza la sua vita in maniera di non avere tempo libero, per non essere sopraffatta dall’angoscia e dall’ossessione della morte
Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975): Delphine Seyrig
Tre giorni della vita disperata e ripetitiva di una donna, 200 minuti senza tagli. eliminando ogni sottotrama, riducendo all'osso il ruolo e il tempo in scena dei personaggi secondari, in modo da concentrarsi quasi esclusivamente su Jeanne e la sua vita domestica.
Vedova e madre di un ragazzo, Sylvain, Jeanne conduce una vita scandita da azioni ben precise da compiere durante le sue giornate, che si alternano in modo pressoché uguale tra loro.
La donna è la casalinga-tipo, cucina e fa le pulizie in casa, aiuta il figlio coi compiti scolastici e sbriga diverse commissioni nei tre giorni della narrazione.
Il tempo nel film scorre con la stessa velocità per i personaggi e per gli spettatori, che possono così sperimentare la materialità del cinema, la sua durata letterale e allo stesso tempo il significato concreto del lavoro di una donna.
Je, tu, il, elle (1974): Chantal Akerman
Ma chi era Chantal Akerman e perché ancora parliamo di lei.
Chantal si è tolta la vita nell’ottobre 2015, aveva 65 anni, era morta da poco la madre con cui aveva un legame viscerale.
Nella sua solitudine di donna di grande successo il suicidio fu la via più breve per togliersi di dosso l’angoscia che non l’aveva mai mollata.
Vita nomade intorno al mondo, sembra scritto per lei quello che diceva Marguerite Duras:
È in una casa che si è soli. Non fuori, ma dentro. Nel parco ci sono uccelli, gatti. Forse anche uno scoiattolo, un furetto. Non siamo soli in un parco. Ma in casa siamo così soli che a volte ci perdiamo.
Jeanne Dielmann è la trasformazione in archetipo di una certa condizione femminile.
Difficile non immedesimarsi, per una donna.
Ce ne sono altre al mondo, certo, Jeanne è un archetipo come tanti, ma parla di una condizione marginale molto diffusa, una pentola a pressione che può esplodere..
Per tre giorni la vediamo ripetere la vuota liturgia del lavoro domestico con una precisione non maniacale, è solo il muoversi negli spazi di casa, del mercato, del negozio di bottoni e lana, in ascensore, di chi non si chiede perché, agisce come un robot programmato, ma in questo muoversi robotizzato rivela una umanità profonda, l’ipnosi sullo spettatore ne è il reagente.
Akerman limita al massimo il linguaggio, la mdp è ferma in cucina, o nel corridoio, o negli spazi condominiali. Mai un primo piano, una soggettiva, uno scarto a cambiare l’ordine delle cose.
No, non mai, l’unico, alla fine, dopo quasi tre ore, la catastrofe. Appunto, la tragedia.
Jeanne Dielman, 23 Quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1975): Delphine Seyrig
Per arrotondare Jeanne fa da baby sitter alla vicina che le porta il neonato per qualche ora.
Impassibile, appoggia il port enfant sul divano, se il bimbo piange aspetta che si calmi, lo prende in braccio, gestualità pura, nessun trasporto emotivo. Quando la madre torna a riprenderlo ascolta muta e cortese il profluvio di parole della donna, poi torna alle sue faccende.
Verso sera arriva il figlio, cenano, domina il silenzio, qualche breve scambio e poi a dormire.
Durante il giorno Jeanne riceve un uomo, capiamo il giovedì da poche parole, forse non solo il giovedì, dispone un telo sul copriletto, lui la paga sulla porta di casa. Jeanne porta il telo nel cesto dei panni sporchi poi torna a preparare la cena.
Trasgressiva e sempre contro, sempre un passo avanti a vedere quello che altri non vedono, in Jeanne Dielmann Akerman annulla la prospettiva. Nel gioco tra la vita e la morte le pedine sono tutte sulla stessa linea e alternano i loro passi. Cinema emotivo ma controllato, ci sono ferite che non si raccontano, si mostrano.
All'inizio fu un cataclisma di ardore ed esaltazione. Parole, sempre le stesse, ripetute continuamente, ho conosciuto le parole d'amore di una lingua antica. Ho parlato tanto. Non avrei dovuto… racconta Akerman in Ma mère rit.
Nel suo ultimo film Akerman vede la Morte.
No home movie è l’ultimo film, dedicato alla madre, poco prima che la donna morisse.
Film in cui Chantal Akerman ha rivelato il suo nocciolo duro, il nucleo più intimo e le ferite che, nude, bucano lo schermo. Nel 2013 Akerman aveva pubblicato un libro/diario, Ma mère rit, a cui mancavano solo le immagini. Ed eccole nel film.
Akerman n'a jamais cessé de décrire l'enfermement, la répétition avec l'autre, le désir d'un ailleurs, le vertige de la folie. Ma mère rit est une magnifique plongée dans le coeur, le rire, les joies et les blessures de Chantal Akerman.(… non ha mai smesso di descrivere la reclusione, la ripetizione con gli altri, il desiderio dell'altrove, la vertigine della follia.Mia madre ride è un magnifico tuffo nel cuore, nelle risate, nelle gioie e nelle ferite di Chantal Akerman)
Tutto il suo cinema racconta la stessa storia, la diaspora di una donna ai confini della vita.
Oltre c’era la morte.
www.paoladigiuseppe.it
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Visto su Fuori Orario,davvero interessante...grazie
Bella pagina, Paola.
Siccome sono a metà di "Adolescence" (Barantini, Thorne, Graham; Netflix, 2025), ch'è contenuto (cinema d'impegno civile) veicolato da una forma (il piano sequenza), mi soffermo s'un intelligente inciso che mi ha fatto molto ridere (in senso del tutto positivo) della citazione che riporti di Catherine David: "Certe gesticolazioni attuali."
"Certe" = non tutte (non tutte sono gesticolazioni + alcune di queste gesticolazioni hanno un loro senso e valore)
"Gesticolazioni" :-)
"Attuali" ≠ "Quando saltavo i fossi per il lungo."
Per quanto mi riguarda il bello è che non v'è attrito artistico né etico né, financo, morale (o meglio: se c'è, è quello di un ingranaggio) tra il cinema-totale di Akerman, quello di Tarr Béla, a fare da ponte (estremo) tra i due "estremi", e quello con la pretesa-di-realtà espresso da, udite udite, una major-platform che fattura 30 miliardi/$ e ha un utile netto di 5 miliardi/$.
Insomma, che ognuno gesticoli come gli pare, tanto la caverna platonica condivisa è la stessa per tutti, tra il focolare della lanterna magica quaggiù e la fornace del Sole lassù.
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