Regia di Jeff Nichols vedi scheda film
Divisi tra il disprezzo per il padre Cleaman, ubriacone scapestrato capace di abbandonarli da piccoli per non farsi più vedere, ed il risentimento per la madre Nicole, cronicamente depressa, chiusa ed inabile ad elaborarne l'assenza, Son, Boy e Kid Hayes sono cresciuti come cani randagi: Son, il maggiore, lavora in un allevamento ittico insieme al minore Kid, ed ha una moglie ed un figlio oltre che un tetto sulla testa, ma il suo vizio del gioco e quello di andare ad infilarsi in letti altrui l'hanno fatta scappare, convincendola a riparare dalla propria madre portando il ragazzino con sé; Boy allena la squinternata squadra di basket della scuola locale e vive in un furgone con un boxer che ha chiamato Henry, dandogli quel nome proprio di persona che lui e i suoi fratelli non sono stati ritenuti degni di avere; Kid ha una ragazza bella e innamorata - Cheryl - che vorrebbe sposarlo, ma con uno stipendio magro e la sola proprietà della tenda da campeggio in cui dorme, si interroga sull'opportunità di un passo così importante.
Quando la madre va a riferirgli la notizia del decesso del padre li trova tutti nella casa del primo: non entra, né loro la invitano a farlo, resta alla porta, si limita ad informarli dell'accaduto e se ne va, precisando solamente che non presenzierà al funerale. Loro invece decidono di farlo, giungono a cerimonia in corso e la interrompono con Son in testa, che prende la parola e sfrutta l'ultima occasione per testimoniare la propria rabbia verso colui il quale, decidendo di seppellirli con il proprio passato lavandosene le mani, s'era sentito redento e ripulito e s'era fatto una nuova famiglia - che stavolta rispettava - e una nuova reputazione, arrivando ad esser salutato dall'officiante come membro più attivo della comunità e onorato uomo di fede. Il rancore, trattenuto e sopito a stento per lunghi anni, riaffiora ed esplode definitivamente sotto la forma di un oltraggioso sputo, dallo stesso Son indirizzato alla bara del defunto davanti agli sguardi increduli e minacciosi della moglie e dei quattro figli di secondo letto, dando il via, con questi ultimi, ad una spirale di minacce ritorsioni e vendette dagli esiti nefasti.
Scorre del sangue nella guerra tra le due famiglie Hayes, ma il regista Jeff Nichols si guarda bene dal mostrarlo, scegliendo di confinare la brutalità esplicita in pochissime scene brevi e inquadrate per lo più di sguincio quando non del tutto assenti e solo raccontate; perché Shotgun Stories, suo film d'esordio, vive della tensione alimentata dalle fitte di dolore di una ferita aperta e mai rimarginata, e in quella ferita si infila e scava con chirurgica precisione, andando a fondo fino a toccare le radici di un cancro impossibile da estirpare che ha come inevitabile prognosi un presente di angoscia e di paura.
Senza conceder nulla allo spettacolo, anzi optando per un ritmo misurato che ben si sposa con gli ambienti spogli ed i paesaggi selvaggi dell'Arkansans (fotografati con colori naturali e senza ricerca di enfasi da Adam Stone), Nichols sposta le coordinate del thriller verso il dramma psicologico in sottrazione, identifica il seme dell'odio e ne mostra i devastanti effetti sul lungo periodo, definisce i caratteri di tutti i 'contentendi' della faida (dall'altra parte ci sono Cleaman, il più pacifico, responsabilizzato dalle due bocche che a sua volta ha da sfamare, Mark, deciso a non farla passar liscia ai fratellastri, e i più piccoli Stephen e John, da quest'ultimo presto coinvolti) con pochi tocchi e assoluta perizia, osservando - con piglio da antropologo - le altalene emotive che li portano ad uno scontro cui si sentono vincolati, destinati, costretti 'per nascita'.
Splendidamente interpretato da un Michael Shannon torvo e sofferente (che tornerà con lo stesso regista nei successivi Take Shelter e Mud) nel ruolo del protagonista Son, Shotgun Stories è un film al contempo grezzo e profondo, compassato ma elettrico, che parla dell'origine, dell'ineluttabilità e dell'inutilità della violenza ma bandisce ogni esibizionismo, preferendo puntare dritto al cuore dei personaggi e a quello degli spettatori e riuscendo, in entrambi i casi, a centrare il bersaglio.
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