Regia di Gabriel Axel vedi scheda film
Ottima commedia, il cui finale aperto si concede a varie possibili interpretazioni.
Jutland, Danimarca. Si avvicina il giorno per la celebrazione del centenario della nascita del gran decano di una pia comunità locale. Le due figlie, settant’anni e più spesi in funzione del prossimo, mai sposatesi malgrado i numerosi ed ottimi partiti che aspiravano alla loro mano, progettano di festeggiare il grande giorno alla loro maniera, con frugalità, assieme agli amici più cari. Caso fortunato vuole che la loro domestica, la Babette del titolo, una rifugiata francese, vinca alla lotteria la bellezza di diecimila franchi. Voglio prepararlo io il pranzo, un vero pranzo alla francese, del resto non vi ho mai chiesto niente, e voglio pagare tutto di tasca mia. Ma no, siamo donne timorate di Dio, moderazione et morigeratezza, questo sta scritto nel Verbo: serviremo il solito magro rancio. Insisto. Va bene, cara Babette. E quindi sotto a spignattare per una settimana, con le due sorellone sempre più preoccupate per i contorni pantagruelici, da grande abbuffata ferreriana, che va assumendo nella loro mente il desco del fatidico giorno. Deh, Satana, vade retro, la gola è un peccato capitale, finiremo come Ciacco nella Divina Commedia: perlomeno, impegniamoci a non far menzione del cibo durante il pasto ed eleviamo invece lodi doppie al Signore. E poi, pranzo fu…
Le nostre due pudibonde sorelle hanno trascorso oramai l’intera esistenza a dire “rinunzio rinunzio rinunzio”. Persino la loro indefessa opera di solidarietà verso gli anziani della comunità si configura come un estremo atto di rinuncia, perché le distoglie da tutte quante le tentazioni che normalmente si allineano lungo il cammino dell’essere umano. Nascosta molto bene, dietro la propensione alla cristiana solidarietà, sta una repressione degli istinti da far risalire al Super-io paterno, e ancora dietro c’è un filino di superbia latente, che all’occorrenza le due donne sguainano fuori dall’elsa di fronte alla prospettiva delle gozzoviglie del pranzo di Babette. Una superiorità morale non detta a parole, ma chiara nella prossemica assunta, verso chi a loro dire sguazza nei bagordi. Il pranzo però fa crollare, od almeno scuote, il castello tetragono delle loro settantennali convinzioni, perché la brava colf si è fumata con generosità impensabile tutta la vincita alla lotteria per cucinarlo, e poi, perché, diciamocelo, ha preparato dei manicaretti mai provati alla loro veneranda età. Il finale si apre quindi a rimpianti e malinconie per quello che poteva essere e non è stato: che cosa davvero ci siamo perse in nome di piccoli egoismi personali mascherati da carità? è lecito pensare che le due donne, nel profondo dell’anima, assai poco cristianamente, si chiedano. Perplessità, domande senza più valore. Intanto, fuori, tutta la tensione della combriccola di anziani, ormai preda di una giusta liberazione sensuale dopo la principesca abbuffata, si scioglie in un sublime canto notturno, che è una dichiarazione di amore verso la vita, verso il destino, verso Dio. La sequenza migliore del film. Ebbene sì, il piacere non nega Dio, ma lo avvicina ancora di più.
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