Regia di Ari Folman vedi scheda film
La straziante versione di “Forever Young”, il celebre brano di Bob Dylan che Robin Wright interpreta in sottofondo con rarefatta intensità durante il suo malinconico volo in una delle scene clou del film, introduce ad uno solo dei tantissimi argomenti (e non è probabilmente quello principale, ma solo quello deputato ad innescare la miccia) che Ari Folman affronta in questo lavoro difficile ed estremamente complesso. D’altra parte, la stessa Wright in persona (qui in tripla veste di: se stessa, personaggio e cartoon), attrice da sempre timida e paradossalmente insicura della sua sfolgorante bellezza, già da qualche tempo presta se stessa (ed il suo corpo di splendida “not-forever-young”) al cinema senza filtri né atifizi, ma anche senza prosopopea e piuttosto con una sincerità spontanea che le fa molto onore. La ricordiamo anche nel recente “Two Mothers” in compagnia della sua (in questo caso) “omologa” Naomi Watts, nel quale insieme interpretano col medesimo garbo il ruolo di due madri sole alle prese con l’avvento dell’età di mezzo e i suoi nuovi orizzonti, possibili e non.
Non chiede di essere giovane-per-sempre l’attrice di ex-successo Robin Wright quando si reca col suo amorevole ed affezionato agente Al (Harvey Ketithel, maestoso come sempre) da Jeff (uno strepitoso Danny Huston), produttore e mecenate degli studi Miramount (nessun nome è a caso, in questo film), per ascoltare da costui quali sono le ultime condizioni che le vengono (im)poste per poter proseguire la carriera. Ma, mentre è alle prese contemporaneamente con lo strazio del figlio più piccolo (piccolo genio amante del volo e pilota di aquiloni, destinato alla cecità e alla sordità da una malattia irreversibile), Robin si ritrova improvvisamente davanti a un cinema irriconoscibile, impensabile fino al giorno prima, alle soglie di un travaglio epocale dal quale sarà presto lecito pensare che potranno essere partoriti solamente mostri. Dapprima riluttante, si lascerà convincere (non diciamo come e quando) a lasciarsi “scannerizzare”, cedendo alla macchina ormai ineluttabilmente impazzita del cinema (che potrà usare la sua immagine digitale a sua totale discrezione, salvo alcune patetiche clausole sulle quali si arrampica un patetico avvocato) ogni diritto su se stessa ed alienando la sua stessa esistenza mondana, impegnandosi a sparire per sempre dalle scene e dai riflettori, anima e corpo.
La scena al (metafisico?) check-point (sarebbe piaciuta a Kubrik, scommetto) al quale si soffermerà per alcuni istanti vent’anni più tardi per recarsi, invitata speciale, al “Congresso Futurista”, scena di pause perfette tra perfetti dialoghi della guardia con l’ancor bella, ormai canuta Robin (tre minuti di tempo sospeso dove anche il fiato dello spettatore resta sospeso in attesa che la donna riceva la speciale fialetta che le consentirà di accedere all’Hotel), segna il passaggio alla fase di animazione del film. Da qui in avanti (e pressochè per sempre poi) tutto sarà cartoon, doppio, irreale mai dimentico del reale al quale si mischia, al quale anela, del quale rimpiange, che penosamente cerca ancora con provata, quanto indomita speranza. Quando il ”guru” della cerimonia Reeve Bobs (nome e fattezze rimandano senza possibilità di equivoco a Steve Jobs, padre della Apple e non solo , deliqui paralleli di realtà parimenti deliranti) annuncia all’ormai impazzita platea di fanatici la scoperta della formula chimica del libero arbitrio debitamente disponibile per tutti in apposite fialette, lo sparo improvviso di un cecchino misterioso darà il via ad una rivolta della quale solo l’amore potrà definire gli altrimenti imprevedibili sviluppi. E la commoventissima scena finale, una voce materna che chiama amorevole il suo pilota di aquiloni, è il richiamo e la rivincita della carne, carne negata, cartonizzata, computerizzata, venduta/comprata, che chiama se stessa, flebile, con un punto interrogativo appena percepibile nell’intonazione quanto salda e risoluta nelle incertezze e nelle paure che la muovono, in qualsiasi realtà si trovi.
Film multi-strato indiscutibilmente durissimo con lo stesso mondo del cinema, e culturalmente all’attacco frontale con la modernità imperante ed ormai largamente assimilata, questo “The Congress” ha trovato comunque ampia distribuzione a livello mondiale (in Italia, ca va sans dire, non se ne parla ancora), se non altro per la notorietà che Folman si è già conquistato col suo “Valzer con Bashir” e con la qualità indiscutibile delle animazioni che utilizza, anche se sarebbe curioso poter conoscere ed analizzare con quanta “forza”, contro i suoi stessi interessi, il cinema (inteso come industria, qui pesantemente criticata) abbia voluto promuoverlo.
Imperdibile.
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