Regia di Ektoras Lygizos vedi scheda film
Giorgos ha fame. È un ragazzo come tanti, un single che vive in un appartamento di una grande città dell’Europa occidentale. Eppure non ha i soldi per comprarsi da mangiare. Quindi si arrangia come può, raccogliendo i fichi dall’albero che si trova nel cortile del palazzo, e intingendo le dita nel miglio del suo canarino. Di lì a poco gli taglieranno l’acqua, poi il padrone di casa lo metterà alla porta. Ridotto al ruolo di vagabondo, cercherà comunque di mantenere un’apparenza di normalità e decoro. Il compito, a dire il vero, risulterà sempre più difficile. Non ci si pensa, infatti, ma la denutrizione incide anche sulle funzioni cerebrali. L’assenza prolungata di cibo può causare accessi di follia. Bastano ventiquattrore di digiuno perché Giorgos si metta a fare cose strane, ad assumere pose da contorsionista, a tentare di sfidare la forza di gravità. Tra un’acrobazia e l’altra, trova però il tempo di correre dietro ad una ragazza, una receptionist che conosce solo di vista, ma che gli piace proprio tanto. Questa storia è un’avventura funambolica che si regge su un delicatissimo equilibrio, mantenendosi in bilico sul filo fragile e sottile a cui è appesa la vita di chi, da un momento all’altro, rischia di perdere le forze fisiche, la salute, la lucidità. La miseria non è soltanto una disgrazia materiale: il lungometraggio d’esordio di Ektoras Lyzigos, giovane regista greco, affranca la crisi economica del suo Paese dalle nebbie dei tecnicismi finanziari, per restituircene un ritratto concreto, limpido, perfino spietato, composto della sostanza umana che, nascosta dietro il paravento dei grafici azionari e delle tabelle numeriche, è la vera portatrice della sofferenza. Il suo dolore è una costante, che si ripropone uguale ogni giorno, senza alcuna speranza, senza il beneficio delle continue oscillazioni monetarie che, agli operatori dei mercati, offrono temporanee e manipolabili illusioni di ripresa. Per Giorgos i cambiamenti, per quanto infinitesimali, possono solo determinare un’ulteriore passo verso l’abisso. La porta di un edificio abbandonato viene sigillata, e lui si trova definitivamente solo, separato dalle ultime, pochissime cose che gli erano rimaste. Un ciuffo di capelli caduti può decretare la fine di un amore. Quando l’esistenza si trova al limite, ridotta ai minimi termini, anche le più piccole differenze pesano come macigni. Invece sfumano quelle distinzioni che separano ciò che giusto da ciò che è sbagliato, perché la morale è un concetto troppo astratto per entrare nel bilancio della necessità. Le regole sono fatte di parole, di convenzioni, sono entità inconsistenti che volano via, non appena il discorso si attacca alle questioni fondamentali, quelle che hanno corpo, che si misurano in etti di zucchero, in litri d’acqua, in metri di spazio vitale. Si capisce, allora, il motivo per cui in questo racconto v’è tanto silenzio. I dialoghi, solitamente, sono strumenti di contrattazione. Non servono più, nel momento in cui viene a mancare la merce di scambio. La solitudine è muta. E mute sono anche le mani vuote che non hanno nulla, nemmeno il coraggio di chiedere aiuto.
Boy Eating the Bird’s Food ha concorso, come rappresentante della Grecia, al premio Oscar 2014 per il miglior film straniero.
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