Regia di Juan Carlos Maneglia, Tana Schembori vedi scheda film
Le casse erano sette, poi una fu
rubata. Ma non è questo il punto. Il problema è che il giovane Victor ignora
ciò che sta trasportando, attraverso la città, sulla sua carriola. Mentre
Nelson, invece, è convinto di saperlo, però si sbaglia di grosso. Ed il
macellaio Darío è quello che ha combinato tutto il pasticcio. A metà strada tra
la black comedy e la crime story, questo film paraguayano è
un brillante condensato di realismo ed ironia, in cui la critica sociale si
incrocia con la caricatura ed il gusto dell’intreccio. Capita ormai di rado
vedere una sceneggiatura così ben congegnata,
costruita su un gioco degli equivoci che al contempo si annoda e si sbroglia sulla
scia degli eventi, senza però mai uscire dai confini del plausibile. Il macabro
si amalgama perfettamente con il ritratto d’ambiente, del quale fa parte anche
quella parlata locale talmente colorita, sporca ed infarcita di gergo da
rendere necessaria, anche per il pubblico di madrelingua, l’aggiunta di sottotitoli
in spagnolo. Il protagonista di questa vicenda tanto intricata quanto
sanguinolenta è un ragazzino del popolo, appena diciottenne, che si guadagna
qualche soldo effettuando piccole consegne di merce per i clienti ed i
venditori di un mercato di Asunción. Sua sorella è aiutante nella cucina di un
ristorante gestito da un coreano, e la sua collega Leti, incinta di nove mesi,
è ampiamente sfruttata dal suo datore di lavoro e dal suo fidanzato Gus, che è
certamente un furfante della peggiore specie, coinvolto in affari assai loschi.
Victor non è il solo ad avere a che fare con cose tanto più grandi di lui: tutti
i personaggi del suo piccolo mondo derelitto si trovano in mezzo al cupo
crocevia in cui la necessità si incontra con l’ingordigia. È il sottobosco metropolitano nel quale i deboli
sognano di diventare ricchi e famosi, come i compari di Gus, disposti a tutto
pur di fare quattrini, e come lo stesso Victor, che subisce, in maniera quasi
patologica, il fascino della televisione. Il suo massimo desiderio è poter, un
giorno, apparire sul piccolo schermo, ma non è il solo a sentirsi
irragionevolmente attratto dalle immagini in movimento. Intorno a lui imperversa
l’ossessione per i telefonini dotati di connessione internet o di videocamera,
a tutti piace l’idea di poter effettuare riprese, di diventare registi od
attori di scene da condividere in pubblico. La mania tecnologica, sullo sfondo
di un quartiere in cui la gente sopravvive a stento e muore ammazzata per
strada, è l’aspetto più marchiano della sproporzione esistente tra la realtà
quotidiana e gli artificiosi ideali prodotti da una ingannevole concezione del
progresso. Si può credere che un gruppetto di contenitori di legno racchiuda un
tesoro di inestimabile valore: pur non avendolo visto con i propri occhi, si è
pronti a rischiare la pelle per potervi mettere le mani sopra. Per disperazione
o per pura avidità, ci si consegna ciecamente ad un’utopia palesemente falsa, e che puzza pure di morte. Nella miseria c’è tanta ignobiltà. In una
storia come questa si potrebbe persino arrivare a riderci su, se non fosse che
la mano arguta e sensibilissima dei due autori, Juan Carlos Maneglia e Tana
Schembori, riesce a fermarsi proprio sul limite che separa lo squallore dalla
comicità. Una perfetta prova di equilibrismo, che ci regala un capitolo squisitamente
fresco, eppure amaramente profondo, di cinema indipendente.
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