Regia di Ümit Ünal vedi scheda film
E dire che, sulla carta, sembrava intrigante, questo thriller della “melagrana”. Una pièce casalinga e claustrofobica, con spiccati accenti femminili e cadenze isteriche, che però non riescono ad aggregarsi nella surreale ironia della black comedy. E così anche le tematiche sociali, audacemente inserite con un piglio melodrammatico non molto credibile, cadono vittime di una dispersività maldestramente infarcita di elementi esoterici. In questo guazzabuglio di madri, figlie, amiche, mogli e sorelle e perfette sconosciute che, inspiegabilmente, di cognome fanno tutte Hanim, e non sono mai ciò che sembrano, l’ambiguità è soltanto un espediente per simulare la presenza di significati nascosti. Tutto risulta un po’ oscuro e decisamente assurdo, però senza la benefica profondità del mistero: si direbbe che la vicenda si faccia complessa ed intricata per il semplice gusto di mostrarsi tale. E intanto l’atmosfera da nodo alla gola si infittisce di spunti gettati al vento, che rimangono sospesi a mezz’aria, senza che nessuno li raccolga (ma chi era, veramente, Mannak Noni, la pazza del villaggio, e perché, dopo tanti anni, viene tirata in ballo? E a che scopo, poi, scomodare i jinni, le creature soprannaturali citate nel Corano?). Il tutto avviene nel vano tentativo di elaborare cinematograficamente una tragica faccenda di malasanità ai danni di una bimba, o più precisamente, le reazioni alla stessa: la nonna della piccola, essendo intenzionata a farsi giustizia da sé, si reca presso l’abitazione della presunta colpevole, fingendosi un’indovina in grado di leggere nei fondi di caffè. Dopo questa premessa, la narrazione potrebbe proseguire il suo folle volo nel mondo della fantasia priva di coerenza, se solo fosse in grado di reggerne la vertigine, trasformandola, magari, in un artistico volteggio. Invece l’altitudine non giova a questo racconto, che si stacca svogliatamente dalla banalità, e che sembra rigidamente attaccato al suolo, trattenuto da una recitazione che la regia vuole tanto “naturale” da farla risultare priva di tono. In questo modo la spontaneità diventa artificiosa e compiaciuta, cosparsa di timidi cenni ad un simbolismo ermetico che aggiunge ulteriori forzature espressive. Con questo Nar il regista turco Ümit Ünal si aggiudica il premio della giuria al festival di Antalya: un riconoscimento che, al limite, può essere giustificato dall’originalità della composizione. Tuttavia questa, a onor del vero, sconfina rapidamente in un’arbitrarietà informe, che è l’unico tratto distintivo di un’autorialità marcatamente grezza, a cui – come esplicitamente dichiarato nell’incomprensibile finale – piace un po’ troppo rincorrersi la coda.
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