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Manhunt

Regia di Marcin Krzysztalowicz vedi scheda film

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La recensione su Manhunt

di OGM
8 stelle

Il cinema polacco non ci sta. Rifiuta l’attuale accelerazione dei tempi, così come la dispersione della verità. L’attimo deve restare ancorato al passato. Lo si può, e lo si deve, ancora dilatare, nella sua sofferta staticità, per poterci scavare dentro, e scoprire i capitoli più silenti degli orrori mai scritti, o troppo presto dimenticati. Le guerre che, nel secolo scorso, hanno insanguinato l’Europa hanno lasciato tracce insepolte, frettolosamente coperte dall’oblio, ma non per questo meno impressionanti. Gli eccidi hanno invaso anche gli angoli più nascosti, come le piccole frange di una catastrofe capace di manifestazioni ben più reboanti. Sono gli eventi collaterali che non hanno fatto storia, e per questo possono essere ripresi nella loro forma più grezza, senza il supporto critico di un contesto, e magari reinventati, sulla scia degli incubi mortiferi che albergano nei recessi della mente. Nella Polonia del 1943, nella radura di una foresta non meglio precisata, si consumano i riti più degradanti dell’odio, della vendetta, del tradimento, del puro e semplice sadismo. Soldati tedeschi ed appartenenti alla resistenza si fronteggiano con i mezzi più crudeli e scorretti, in un gioco sporco che sembra totalmente slegato dalle ragioni politiche, e basato sul gusto di uccidere, di saldare debiti destinati a non estinguersi mai. Il caporale Wydra (lontra), il capo di un piccolo gruppo di Banditen, coltiva la spietatezza con la misurata coscienziosità che si addice all’assolvimento di una missione vitale. È instancabile nell’esecuzione del suo mandato di morte, al quale si dedica con una lucidità talmente paziente ed impassibile da poter essere scambiata per delicatezza. Il suo atteggiamento sinistramente suadente suona come un invito, al quale le sue vittime rispondono con incredibile docilità. Lo seguono senza ribellarsi, lungo il cammino che conduce al luogo del loro sacrificio. L’omicidio diventa un rito celebrato con composta solennità, colpendo l’essere umano nelle manifestazioni della sua debolezza: la gelosia, gli istinti, la fame, la passioni futili, la paura del dolore, il desiderio di fuga dalla realtà. Le donne, il calcio, le pillole, l’alcol. Si cede alle tentazioni che forniscono un’illusione di normalità, e ci si consegna soavemente alla sconfitta e alla fine di tutto. Ci si vende per salvare una moglie, una sorella, però eludendo l’eroismo, ed abbracciando stancamente la più rassegnata forma di squallore. Forse Wydra è davvero il solo che davvero combatte, a viso aperto e alla luce del sole. Il solo che ha il coraggio di non porre limite all’atrocità. Con inflessibile costanza continua a riscuotere il suo tributo di sangue, perseguendo coerentemente la mancanza di senso che caratterizza quel mondo in cui ciò che conta è salvare se stessi ed eliminare il nemico. Wydra interpreta consapevolmente, e  fino in fondo, la parte che gli è assegnata. Intorno a lui i corpi e le anime cadono come le foglie.  L’aria è ferma e grigia, e stranamente indifferente, come in un autunno senza vento. La tempesta è passata lontano da lì: nei margini più remoti dell’inferno, dove non arrivano né i lampi né i tuoni, la violenza si esprime in un lento ed anonimo sfacelo. Tutto è infinitamente brutto e desolatamente perduto; ma è talmente rarefatto ed impalpabile che si direbbe formato di solo pensiero.    

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